nel pubblico trasporto
di Roberto Minardi
poco prima dell’annuncio
un occhio si smarrisce facilmente
e l’altro è ossessionato dalla terra,
così all’impiedi, mentre il corpo oscilla,
tra una fermata e quella che verrà,
viene l’urgenza di far risaltare
il gesto lento del vecchio cinese
che con un panno pulisce gli occhiali.
tutt’a un tratto si ha voglia di andare
sopra le righe, e invitare tutti
i passeggeri al pianto…
ma anche la commozione se ne va
ed è concesso soltanto a chi canta
di liberarsi ad alta voce. a me
non resta che impugnare il cellulare,
premere i tasti e fingere di usarlo
prima di avviarmi all’uscita e mostrare
di essere quasi uno qualsiasi.
nel pubblico trasporto
c’è del terriccio rosa sparso sul marciapiedi,
e un freddo sostanziale, su viso, fronte e mani,
ha risvegliato già la fantasia di chi
si approssima ai binari – o questa è l’impressione.
dormicchia ancora il sole, sembra un tramonto, ma
impallidito, certo, e regge in alto, è ovvio,
rigato da tralicci. ieri è caduta neve,
per un bel po’ di ore, ma l’hanno già spazzata
in abbondanza ed ora si manifesta a chiazze;
orna detriti, ferri e attrezzi da lavoro.
una volta arrivati, fra la sosta e l’attesa,
si possono inquadrare, disposte in verticale,
bobine irrigidite. e fili doppi e tesi,
in perpendicolare, s’incrociano lasciando
nel cielo dei quadranti il cui colore varia
– dipende dal furore che in esse si condensa.
il treno si avvicina, si aprono le portiere.
una volta partiti, il rumore è leggero,
nel sottofondo sordo, e uniforme al punto
da far venire il sonno. gli sguardi sono attratti
dal fumo molto lieve che si solleva dal
termos che una signora, seduta, tiene in mano.
dalla distanza, allora, si cerca di capire
se è tè o se è caffè. per cui ci vuole naso
per catturare questo inutile dettaglio.
del tutto vano è anche sperare di abbracciare
la somma delle scene che fuggono, respirano,
mentre tentiamo di non perder l’equilibrio
e ci afferriamo a un palo.
nella città col porto
un corpo marcia sotto un sole ben acceso,
con un cappello in testa e la soddisfazione
di essere uno straniero. in vicoli e salite,
fra breccia e asfalto, insiste. si cerca nei bambini
dai volti un po’ arrossati e negli anziani che
procedono tenendo i polsi uniti e i pugni
chiusi, dietro la schiena. esegue, passo a passo,
il solito andamento ed è profonda, tanto,
la sua spensieratezza. passato un po’ di tempo,
sul livello del mare – quando si scende in fondo
e vi si arriva – lì, ci sono troppe vele
e paterazzi e yacht e il tutto, complica la visione
delle acque e del castello stagliato sullo sfondo,
in cima alla montagna. una malinconia
assale tutti gli arti. non sa più cosa fare,
l’uomo che adesso fissa i sandali che indossa:
sostare in un caffè, fumare, sì, fumare,
come non fa da tempo, bere una birra fredda,
lasciarsi raccontare una serie di aneddoti
da un piccolo passante che sembra un poco matto,
trovare la scusante per ritornare già
alla stazione, forse, dove sedersi e leggere
il libro che ha comprato… le mani, per esempio,
frugano in borsa e aprono una cerniera per
vedere se il biglietto è ancora lì che aspetta.
prova una certa invidia per chi non ha programmi
e se ne va, maldestro, ma senza impantanarsi,
finché soltanto il sonno decide il luogo e l’ora
dove dovrà assopirsi (almeno così crede
succederà a qualcuno). come in un sogno, allora,
una sirena echeggia; si appropria dei suoi nervi
e simultaneamente li culla e li sconforta.
dal cielo spiove un raggio che incide sul suo capo.
per un istante abbassa le palpebre con gusto
(spuntano macchie viola); si pensa dal di fuori,
quindi si prende in giro e dopo riapre gli occhi…
riprende il panorama con la sua digitale
e si rimette in moto, pronto per ritornare
con ciò che ha immortalato.
il ciclo delle passeggiate
al di là delle mandrie (certo, qui non ci sono)
di quell’erba pestata e lasciata alle spalle,
siamo vinti da questa palpitante edilizia:
oltre a spigoli e archi che si incrociano a nuvole,
a sottili pontili con delle onde di ferro,
c’è un insieme composto da richiami vermigli
e sculture sensuali forgiate col bronzo.
e scattiamo una foto per ritrarre il presente,
trasformarlo, ovviamente, nel futuro passato.
il non detto si infila tra una pausa e l’altra;
una stretta col braccio a cerchiare le spalle…
la chiamiamo amicizia, è qualcosa che scuote.
sembrerebbero cose da documentari
né il berretto di lana caprina e neppure
il colletto all’insù, sono forse abbastanza.
ma ci piace l’inverno (con la mano teniamo,
ben premuta sul collo, la sciarpa), ci piace,
anche se ripensando a quel vecchio che sputa
e inveisce, è difficile credere che non abbia
una casa e non ha che un piumino insozzato,
dei cartoni disfatti e una birra in lattina.
nei dintorni il buio è calato e lo sguardo
se ne va alla ricerca delle luci riflesse
nelle parti di cielo più basse, proprio sopra
la schiera di case, sulla via del ritorno.
Roberto Minardi (Ragusa, 1977) dal 1999 vive in Inghilterra. Dal 2005 al 2006 ha vissuto a Panama dove ha pubblicato la sua prima plaquette di poesie, in versione bilingue. Nell’aprile 2007 la piccola ARCHIlibri di Comiso ha pubblicato la silloge Note dallo sterno. Alcuni suoi testi sono stati pubblicati in riviste (Tratti, Semicerchio, La Mosca di Milano ecc.). Dopo un soggiorno-studio in Francia, nel 2010, è tornato a Londra, dove dall’inizio del 2011 gestisce, insieme ad altri, il blog dopotutto, come parte di un progetto che si occupa di dare spazio a poeti in lingua italiana che vivono a Londra e dintorni. La sua raccolta inedita nel senso che è stata segnalata al Premio Lorenzo Montano 2011.
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