Latte di Kapra
di Enrico Carovani

Dimmi K., dimmi ora, che mai ti sei permessa
di dire, dimmi perché sai che mi devi dire,
me lo devi, dimmi ora ché è estremamente
probabile che Genova soffochi prima del previsto
la voce interrotta della donna che muore,
dimmi prima che la donna muoia e dimmi
una volta ancora tutto quello che non siamo
stati capaci di dirci allora, mai del tutto,
tu che nasci prima e presto, troppo presto,
troppo, prima, prima di quanto non sia stato
capace di fare io, e lo faccio ora con una bambina
mia che appartiene a se stessa e alle cose che
le abbiamo lasciato qui, le abbiamo dato
in una specie di eredità raccolta, forse esigua,
dimmi quando le notti riemergono a Berlino
e affoga una volta ancora nel porto della repubblica,
come altre tre ed altre mille, la notte, nel mondo
che pensiamo costretti come groviglio,
geometria di passaggio, da triangolo industriale,
la capra che osservo mentre Marlene le dà
da mangiare, la notte attorcigliata su poche frasi
immalinconite ed un mistero che è mistero medesimo
di voglie mancate e accennate, residue ed inavvicinabili,
nei processi ininterrotti degli ormoni femminili,
infantili e fetidi, marciti prima ancora che potessero sbocciare.
Seguo una trama di ritmo nelle tue parole
viaggianti e sedute, mi chiedo se pur avendo
vent’anni dovessi chiedermi cosa farei a vent’anni,
e mi ci fermo sopra, la ripongo a me stesso, non mi curo
della tua età che una volta congelata nei concetti
di arnese fuoriuso non si può rinnovare,
non ha nessuna idea di cosa succeda
dopo gli anni del plenilunio,
nello scorcio di sole che mi regala
la fattoria in cui Marlene corre.