Per Tommaso di Ciaula (1941– 2021)

In ricordo di Tommaso di Ciaula scomparso a Bitetto un anno fa, il 12 gennaio 2021, ripubblichiamo parte della prefazione con cui Paolo Volponi introdusse il suo “Tuta blu. Ire, ricordi e sogni di un operaio del sud” (Feltrinelli, Milano 1978, pp. 5ss). Nel corso di quest’anno, la collana Working class di Alegre riporterà in libreria questo classico della narrativa operaia.

 

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L’urgenza che percorre tutto questo bellissimo libro come un vento incalza le parole una per una, ciascuna con il suo timbro e il suo peso, proprio come nei testi arcaici e popolari e anche nei dettati delle orazioni e degli sfoghi.
Questi testi infatti vengono generalmente sentiti, nelle ripetizioni della tradizione, come fatti naturali, come eventi metereologici che si rinnovano fatalmente nel corso delle stagioni che accompagnano il corso della lettura, della lettura anche come esclamazione; tant’è vero che sono stati illustrati storicamente con l’immagine di roseti, frutteti o di altre messi sempre nel pieno del rigoglio, ma dove ciascun fiore o frutto era ben in evidenza per conto suo: da gustare per la sua particolare dolcezza di essere davanti o sul fondo, più maturo o più aspro.
Il sapore di ognuno di questi frutti è distinto, accompagnato da una propria illuminazione poetica; è sfuggente, è rapido quanto vago, è ritrovato «dentro» da chi lo sente come una suggestione o una speranza; mentre la nutrizione è robusta e convincente e viene sentita proprio come un fatto collettivo, cioè di partecipazione a una crescita sociale.
L’urgenza che muove questo libro è sprigionata da tutte e due le condizioni esistenziali che compongono e spaccano la vita dello scrittore, l’operaio metalmeccanico Tommaso Di Ciaula, tornitore presso un’industria del Sud. La prima di queste condizioni è la sua natura di contadino pugliese, di una delle più dolci e fiorite campagne e società del nostro mezzogiorno; la seconda è il suo essere operaio, con un timbro sulla tuta blu, e tanti altri timbri, «dappertutto Catena-Sud», «Meglio mio nonno contadino con le pezze in culo, tutti stracci rattoppati ma senza scritte. Tutto era rattoppato dai nonni: gli abiti, le lenzuola, l’imbottita, le tende, il telone delle ulive, i sacchi: tutto rattoppato». Come naturalmente Di Ciaula è nato contadino così è cresciuto e diventato poeta filtrando in poesia il meglio della cultura contadina davanti agli spettacoli naturali, alla fatica, ai rapporti sociali e familiari. Il suo modo di capire la vita, dentro la natura e dentro la società, è tutto poetico; tutto costruito e mosso da accumulazioni poetiche; con il destino e con il futuro sempre carichi di eventi uguali e fatalmente ripetuti e che possono rinnovarsi soltanto nella sensazione, nell’immagine, cioè nell’atteggiamento poetico, che è l’unica vera ragione e totalità. Così vola un uccello, fiorisce un fiore, matura una messe, si illumina una campagna; così si nasce e si muore, e così si continua a guardare. Finché nella campagna, e anche nella cultura e nella società di quel paesaggio, non viene calata una fabbrica. Allora il contadino-poeta Di Ciaula diventa operaio metalmeccanico. Può credere all’inizio che la fabbrica possa essere solo una luce nuova nel corso solare delle giornate, uno spigolo diverso nel paesaggio, addirittura una benevola attività che possa arricchire la vecchia contrada.
«Maledetta fabbrica. Eppure l’aveva tanto sognata». La fabbrica viene spesso maledetta dalla sua stessa essenza, struttura, funzione; da tutti gli elementi negativi che la cultura ha reperito a carico dei luoghi di lavoro industriale e capitalistici. La natura contadina di Di Ciaula sfrigge ancora di più a contatto con la lama rovente che è la condizione dell’operaio secondo gli attuali rapporti di produzione.
Alla rapidissima avidità poetica di Tommaso si aggiungono presto lo stress, le umiliazioni di stare nella mano d’opera industriale. Cosi la sua urgenza si carica anche di rabbia e di sfrontatezza trascinando via via ogni pensiero, gesto e parola in una catena continua, sfrullante quanto angosciosa, come uno stormo di migratori che non smettesse mai continuando a coprire lo stesso cielo in tutte le stagioni, fino a coinvolgere anche i suoi tentativi di organizzare la propria coscienza e la propria giornata.[…]
Cosi per lo stesso meccanismo per il quale nella società contadina la solitudine e la miseria si tramutano in contemplazione e poesia, anche l’alienazione del lavoro industriale viene rivoltata in poesia, al punto che le sovrastimolazioni dello stress diventano la forza del dettato poetico. Il livello personale di maturità e di cultura sopporta appena la tensione ansiosa, ma riesce a piegarla proprio perché ne fa oggetto della propria coscienza e dei suoi strumenti poetici.
Il filtro della poesia fa cadere sul libro come una miriade di scintille tante bellissime parole, frasi, immagini, nelle quali il lampo lirico non si consuma, ma si condensa nella composizione di una realtà alternativa. Questa non è soltanto il quadro uniforme e piatto di espressioni verbali più meno ispirate o esagitate, proprio perché il peso del materiale letterario va al di là della costruzione di un caso personale e arriva a comporsi come risultato generale, anche nel politico.
In un politico franto, sfrontato e anche infantile, ma non privo di veri significati e di indicazioni molto importanti per chiunque oggi voglia fare un quadro vero delle posizioni di classe, del loro modo di maturare e di intervenire. Certo il racconto che Di Ciaula con tutti i suoi affanni riesce a sostenere con grande bellezza, non accetta di servire da media, di essere immediatamente strumentalizzato, proprio perché non ha schemi compositivi pre-esistenti e non vuole nemmeno servirsi, durante la Produzione, di un metodo compositivo omologato altrove. Con tutto ciò, potrebbe ugualmente correre il rischio, del tutto letterario, di essere sciolto e consumato all’interno della sua abbondante poeticità.
Per impedire questa riduzione di maniera della lettura, non varrà tanto fare un richiamo alla condizione sociale dello scrittore, al luogo in cui il libro è stato scritto, e nemmeno alla circolazione underground della poesia e degli stimoli a scrivere, quanto allo scontro che alla fine il libro provoca e impone.
La condizione, anche poetica, di Di Ciaula non sfugge all’oggettiva, tagliente verità dei rapporti di produzione nel nostro sistema capitalistico: tenderà allora quasi a scampare sarcasticamente, irrazionalisticamente. Assumerà verso la fine con scetticismo i motivi e i modi della propria liricità, come se scorticandoli e riducendoli potesse ridurre il proprio spazio di conflitto e di dolore dentro e fuori la fabbrica.
Ma questa operazione di riduzione è ormai diventata anch’essa industriale, e proprio come una miniaturizzazione renderà ancora più acuto ed espanso il segnale.