Enten
di Enrico Carovani

Pensavo che amori venissero prima
in questo sudore di molti invitati,
si consumano i tavoli nella pulizia
metronomica di torbida barista che
timbra vivi i polsi e non si tirano indietro
le penne guidate dalle mie fortune,
le gocce di pece che scorrono scivolano
vagano su piume idrofobe di un’anatra
menomata, repellenti le smanie delle madri,
le ambivalenze mute delle amiche delle madri
quando si manifesta spirto non c’è cosa
che possa muover l’occhio a vicende terrene

la risonanza con quel che di angelico permea
le sfere del dermatologo Modesto dal Sud-Sudan,
ragazzini con il telecomando usciti indomiti vanno
e concretano la regola univoca di stare fuori dal pub
con gli stessi pari con cui si è entrati vomitando.
Suona il tacco dei suoi stivaletti, le armonie che i piedi
sovvertono, sguaiati fiati si scompongono sul far delle due
ed una mano si posa sul giovane che pure ci somiglia,
al calciatore Guti, e pure richiama le ciocche dipinte
d’ossigeno del madridista in esilio in Turchia.
Qualora vicende borghesi di chi scrive come se mai
nessun altro scrivesse giungessero alla meta, quale fiacca
                                                                quale resaca.
Secondo il desiderio di qualche superba che parla
lo Spagnolo si articolano voci che strutturano
i pensieri di Ronny, biondo pure lui, ma ringiovanito.
E alle avventure dei miei sbalordimenti
viene a profilarsi come un’ipotesi di reato,
un atto deviato, eversivo, esercizio di sessi lontanissimi
che neanche stavolta sapranno come occupare il tempo.