Ritorno
di Paolo Grusovin

Anche se il rumore dell’ascensore, che si era appena sentito da oltre la porta, non era da solo sufficiente per tranquillizzare Marina, la voce di zio Carlo, che si udì da fuori, lo fece subito dopo. Sì, questa volta era vero, mamma stava rientrando a casa.

Il campanello suonò lo stesso una volta, per dare il segnale che Dora e il cognato stavano rientrando. Non c’era bisogno che zia Flavia andasse a cercare Marina per avvertirla, la bambina aveva già capito tutto e stava già nell’ingresso.

Si sentì il rumore, familiare, della chiave che girava. Dalla porta aperta entrò Dora; una vistosa benda le copriva l’occhio destro. «Marina?»

«Mamma!» La bimba di otto anni si lanciò ad abbracciare le gambe della madre, che si chinò stringendola a sé e carezzandole la testa. Marina stava singhiozzando.

«Mamma! Finalmente!»

Le braccia di Dora stringevano a scatti le spalle della figlia. Carlo e Flavia, in piedi, si scambiavano sguardi emozionati ma alterati da un visibile disagio.

«Dora, dammi le tue cose, levati la giacca…» iniziò la sorella.

Dora si staccò dalla figlia con un gesto delicato che voleva quasi scusarsi per l’interruzione di quel contatto. L’occhio sbendato era umido ma si sforzava di non far scendere lacrime.

«Lo vedi Marina, che abbiamo mantenuto la promessa e abbiamo riportato mamma a casa dall’ospedale presto presto, come ti avevamo detto?» disse Carlo.

«Marina, fammi un favore, porta di là in camera mia questa borsetta, grazie tesoro».

«Sì mamma, certo».

«E poi aspetta un poco, stai un po’ a giocare di là, io parlo qui con la zia. Lasciaci giusto una decina di minuti».

«No, non voglio, voglio stare con te!»

«Marina, davvero, per favore… Dieci minuti, non di più. La mamma deve dire delle cose alla zia».

Marina lasciò l’ingresso, ma non lo fece con lo sguardo, che non voleva abbandonare la madre. Vide che però preferirono chiudere la porta del salone. Marina non era abituata ad ascoltare da oltre le porte chiuse, e non voleva certo fare arrabbiare la mamma subito dopo il ritorno a casa. Ma in quel momento la chiusura di quella porta le pesava molto.

A Carlo sembrò di percepire quell’agitazione nella nipote, e cercò la sua attenzione: «Su Marina, andiamo a mettere via le cose della mamma», disse, approfittando del fatto che stava levando dall’ingresso il borsone di Dora, «mettiamo i vestiti vicini per colore, come piace a te».

Nel salotto c’era una teiera calda con delle tazze. Flavia cominciò a riempire e fu lei a rompere il silenzio: «Fa comunque male?»

«Male, male… Mi è difficile risponderti… Dipende cosa intendi per male. C’è un tipo di dolore che va oltre a quello fisico, del… corpo, dei tessuti, delle terminazioni nervose…»

«Sì Dora, capisco… Cioè no, no… Non posso capire in realtà, lo so perfettamente… Cerco di sforzarmi di capire.»

«Intanto i lividi sono meno evidenti, cerco di truccarli meglio che posso».

Dora si tastò leggermente lo zigomo al di sotto della benda.

«Durante le due visite che mi avete fatto in ospedale, Marina non ha mai chiesto di lui, non a me, almeno, non in mia presenza. L’ha fatto qui con voi?»

«Di lui? No, Dora, no…»

«Cosa chiedeva di me?»

«Quando saresti tornata, era tutta eccitata… Sapeva che la data sarebbe stata oggi, ma lo stesso… non poteva fare a meno di chiederlo sempre. Per lei, immagino, è diverso, vive in un mondo da bambini, è un mondo in cui quando una cosa si rompe, quasi sicuramente si può riparare…»

«Già, ma non sarà questo il caso. Insomma, non del tutto».

«Pensi che avremmo dovuto essere più dirette con lei?»

«Se c’era da essere dirette, ci volevano le condizioni adatte. E sentivo che nella stanza dell’ospedale non c’erano. E ora deciderò io. Tanto alla fine questa benda non la terrò mica in eterno. La verità verrà fuori».

Flavia girò il cucchiaino nella tazza, anche se lo zucchero era già completamente sciolto.

«Avrai bisogno di forze per il processo».

«Sì, lo so. Ma confido che andrà per il meglio».

«La dovrà pagare!»

«La pagherà, la pagherà, ho fiducia nella giustizia».

«Come ti presenterai in aula?»

«Non intendo pensarci ora. Forse avrò già una protesi, forse non sarò ancora pronta… Alla fine voglio che in aula contino i fatti concreti. Quello che porto addosso è un fatto concreto. È il frutto della violenza, delle botte, del dolore».

«E Marina?»

«Forse non realizzerà la realtà nello stesso modo, ma so che sarà una fine di un incubo anche per lei. Anche se negli ultimi mesi avevo cercato di tenerla il più lontano possibile da lui… Anzi, grazie ancora per tutto, Flavia».

«Ma non dirlo nemmeno. Anzi, ora che ci ripenso, avrei dovuto tenere più tempo in casa anche te…»

«Le cose sono precipitate in un modo imprevisto, non ti rinfaccerò mai nulla, sorellina. Anch’io ormai non mi sarei più aspettata che si facesse vedere, era una figura ormai così assente nella nostra vita…»

«Fosse stato assente pure quella sera in cui ti ha aggredita, quel bastardo!»

Dora inspirò profondamente, e si girò verso la porta chiusa, tendendo l’orecchio.

«Sembra che Carlo la stia distraendo, ma non posso non andare da lei».

«Dimmi se vuoi che vi lasciamo sole».

«Non lo so, aspetta, restate ancora un po’. Sono confusa dal ritorno a casa…»

«Non vuoi stare con Marina?»

«No, voglio dire… Aspetta ancora un minuto, devo riflettere bene…»

Flavia si alzò; sentì istintivamente di dover lasciare respiro ai pensieri di Dora. Andò verso la porta e la schiuse leggermente.

«Carlo, vieni qui per favore».

Marina era già davanti, non riusciva a stare lontana. Lo sguardo di Carlo, appoggiato allo stipite della camera da letto tenendo in mano una felpa azzurra della cognata, sembrava dire: «Io ci ho provato, ma ci tiene troppo a venire di là».

«Sì, Marina, guarda, abbiamo finito… Quasi finito. Vai in cucina a prendere quella scatola di biscotti tondi, quelli con la marmellata arancio, ce li mangiamo ora tutti insieme con la mamma, va bene?»

L’attenzione di Marina non incrociava le parole della zia, era tutta tesa con lo sguardo nell’apertura della porta, verso la madre.

«Ehi, Marina! Guarda cos’avevi lasciato nella camera da letto!» interruppe Carlo, scuotendo leggermente in mano una bambola.

«Aspetta, prendi anche nella tua camera il suo cerchietto, così fai vedere a mamma come sta bene».

Filla, la bambola preferita di Marina, ebbe l’effetto sperato, la bambina si allontanò un attimo per correre a prenderla nella propria camera.

Nel salotto, Dora si alzò dalla poltrona e si avvicinò alla sorella dicendo piano: «Flavia, dai… Non facciamola aspettare»; uscì per andare nella camera da letto della figlia.

Marina stava terminando di abbottonare un abitino sulla bambola, che aveva appena cambiato.

«Mamma!» esclamò vedendo entrare Dora, «ho messo a Filla il vestito più bello perché festeggia anche lei il tuo ritorno!»

Dora si sedette sul letto accanto alla figlia, e le appoggiò con leggerezza la mano sulla testa: «Marina, ti sistemo i capelli, vuoi? Ti ci do una spazzolata».

«Sì mamma. Grazie. È da tanto che non lo facciamo».

«Vai a prendere la spazzola che vuoi tu. Prendi pure quella mia grande dal bagno, quella rosa che ti piace».

La bambina scattò, e tornò immediatamente dall’ingresso con la spazzola in mano. Evidentemente l’aveva spostata dal bagno per usarla o per giocarci, nei giorni precedenti.

Dora iniziò a passarla delicatamente tra i capelli biondi di Marina, da dietro le sue spalle, e lei dopo un po’ prese a fare lo stesso gesto sulla bambola che teneva in braccio.

«Cosa mangiamo stasera per festeggiare?» chiese.

«Oh, non ci ho pensato, guarda… Sono un po’ stanca, magari ordiniamo qualcosa a casa, qualcosa che ti piace, tesoro».

«Mmh!» mormorò con fare ghiotto. Seguirono pochi attimi di silenzio.

«Mamma».

«Sì, amore?»

«Ti fa molto male l’occhio?»

Dora si morse impercettibilmente il labbro. Il momento di dire la verità non poteva essere tenuto troppo lontano. Proprio mentre si stava rendendo conto di un leggero tremore delle mani, fu anticipata dalle parole della figlia.

«Posso mettermi una benda anch’io, così non ti sentirai sola, mamma».

«No, tesoro, ma cosa dici! Non farlo, non pensarci nemmeno. I tuoi occhi ci vedono bene ed è giusto che li usi tutti e due. E poi sai che hanno un colore magnifico. Tutti devono vederli. Sarebbe un peccato coprirli».

«Ma uno solo?»

«Anche uno solo».

Marina tacque, ma era un silenzio che copriva tante idee. «Allora…» e si alzò facendo sfilare una ciocca tra le dita della madre, che non disse nulla.

«Allora posso fare questo», disse, scattando di nuovo in piedi e correndo velocemente fuori dalla stanza.

Tornò un istante dopo, tenendo in mano un nastro. Iniziò a girarlo intorno alla testa della bambola.

«Filla ha deciso di farti compagnia, almeno fino a quando avrai l’occhio bendato».

«Vedi, Marina…». Dora posò la spazzola, e prese con delicatezza la bambola.

«Il fatto è…» La bambola cominciava a tremare tra le mani di Dora, che si stava emozionando. Sfilò la benda dalla testa di Filla. Con le dita della mano destra scivolò verso l’occhio sinistro della bambola, e ce le passò sopra. Poi cominciò a premere sull’occhio, a premere sempre più forte. Il pollice si infilò dietro. Con un gesto secco staccò l’occhio, spezzando il filo cui era cucito.

«Ecco amore. Ora Filla mi può fare compagnia».

Marina fissò la madre in faccia, e dietro agli occhi si intuiva che stava pensando. Stava realizzando. Si rigirò verso Filla e appoggiò le dita dove prima c’era l’occhio. Rialzò lo sguardo verso la madre, e il piccolo mento era scosso da leggeri tremiti. Senza dire nulla si gettò nel petto di Dora, affondando il viso e stringendo forte le dita sulla camicia che indossava.

Dora l’abbracciò forte, sentiva il piccolo corpo vibrare di scosse d’un pianto forse troppo grande per potersi liberare facilmente.

«Non occorre parlare, non occorre dire nulla, tesoro. Andrà tutto bene. Staremo insieme e saremo felici».

Flavia le vide così, attraverso la porta socchiusa del salotto. Decise di non disturbarle, e si avviò verso l’uscita. Carlo aspettava già fuori.

*

L’autore

 

Paolo Grusovin è nato a Gorizia nel 1977, si è laureato in lingua e letteratura russa nel 2003 e ha terminato un dottorato di ricerca nel 2009. Subito dopo si è trasferito a Mosca, dove vive tuttora; lì lavora principalmente come traduttore e interprete, e talvolta come insegnante d’italiano. Ha lasciato per troppi anni testi chiusi nel cassetto. Ha tradotto con Marianna Sili il racconto Esperienza nell’esternare il lutto di Marina Višneveckaja su Atti Impuri, vol. 2. Il suo racconto La casa dei matti è comparso sempre su attimpuri.it.