La Zona Rossa
di Sparajurij

Presentiamo il testo che abbiamo scritto per la nuova edizione di Sololimoni.

Ieri mi sono svegliato succhiando una fetta di limone. Ho aperto gli occhi e lei era lì, gialla, stretta fra i denti, morbida come un paio di guanti. Ascoltando la spinta dell’acido che colava giù lungo la gola guardavo di sopra, con gli occhi fermi, senza voce: si perdevano in firmamenti di lampadine fulminate. E intanto che il veleno scendeva aspettavo, e intanto che aspettavo ridevo, e intanto che ridevo pensavo: “È un bel giorno, questo. Il giorno giusto per farsi scivolare il tempo di dosso”.

L’apprensione maggiore, quando penso al tempo, è che non sia mai tardi abbastanza. Temo rimangano i minuti del dopo ad attendere una mossa, una decisione. Minuti gialli. Ennesimi agrumi. Li raccolgo da terra, li peso e li lancio giù dalla finestra. Li osservo rotolare verso il torrente secco, nella quiete di un pomeriggio estivo. E quante ore ieri mattina il sole ha speso nella mia stanza rimbalzando tra le pareti come impazzito, passando sulle nocche arrossate e sbiancando la mia vanità di pugile.

In quei giorni sperimentavo una curiosa coincidenza di affezioni: il limone che dovevo spremere nel tè al mattino, per ordine del medico; e i limoni appesi sugli alberi spogli, per ordine del Capo del governo. La Zona Rossa s’atteggiava a flogòsi, come la mia infezione batterica cutanea, infiammazione del tessuto urbano e sociale, con i rigidi poliziotti a diffondersi nelle strade attigue come batteri, una teoria di agenti irritanti con i loro gas lacrimogeni. L’enorme, essudante infiammazione tentava di debilitare l’intero organismo, che rispondeva inviando macrofagi e linfociti, appena originatasi dalle cellule staminali multipotenti del midollo osseo. Là fuori c’era la mia storia clinica, l’eziologia in parata sotto la mia finestra.

Tutti fuori: gli amici, i parenti, i vicini di casa. Perfino il cane, che col tempo aveva sviluppato l’abilità di aprirsi la porta senza l’aiuto di nessuno. A un certo punto se ne era fuggito anche lui all’aperto, dicendo che di pisciare e tirar merda sui giornali in salotto mentre io illanguidivo nei miei torbidi ammassi di nulla non gli andava più, vaffanculo, davvero. Così adesso stavo solo, rigido e fesso, come un ponte affacciato sull’abisso, io, l’aria rozza, e le pareti arabescate di macchie a forma di insetti e rane, mentre dall’altra parte della finestra l’infezione insisteva a diffondere un caos ordinato: il mondo degli sporcati e dei lebbrosi si confrontava con una poltiglia mascherata, carica di ira e di calcolo. La fabbrica dei lividi faceva indietreggiare il mondo e poi lo faceva correre in mezzo all’afa, in mezzo all’estate che diventava improvvisamente oscura e minacciosa. Dal mare risaliva un’onda di polizia coi caschi e i lacrimogeni invece della schiuma e le urla questa volta non erano quelle dei bagnanti travolti, ma dei corpi calpestati sulle strisce di sangue pedonali.

Guardavo giù e poi tornavo allo specchio a osservare i progressi della flogòsi: era iniziata con lievi increspature della pelle, prosciugata dall’interno, che avevano prodotto esfoliazioni e lievi smottamenti ben visibili, nonché essudazioni proteiche nella zona retroauricolare. Oggi si combatteva, fuori del mio corpo e dentro di esso: ieri s’erano aperti fronti sul collo e sulle guance: estese Zone Rosse occupavano centimetri quadrati di pelle e immaginavo che lì i miei anticorpi tentassero di respingere i batteri, accompagnati dalla musica prodotta dalle mitosi cellulari, nel cosmo infinitesimale.

Ero indeciso se tifare per la vittoria degli uni o degli altri, poiché mi affascinava la rapida diffusione della manifestazione allergica: oggi dal collo era scesa sul petto, che mi bruciava come dopo una serata trascorsa a bere e fumare, aprendo altri fronti tra l’attaccatura del collo sul busto e fra i pettorali, coperti dalla fuliggine dei peli. Pregavo per una soluzione definitiva. Se diventassi come te, fratello limone, se solo il mio corpo fosse in grado di sciogliersi e limosuzionarsi consentendo alle ire di trasudare dalla pelle, dalle ossa, e scomparire. Se potessi imitarti almeno un pochino allora forse — forse — sarei felice di essere vivo. Un me diverso, certo, nuovo, distratto soltanto dal mare, dalle nuvole in coro, mai più abbandonato ai conati sul ring dopo la resa finale. Perché è così, insistevo a pensare: un pugile che ha perso ogni guerra è come la più misera e sbandata fra le falene d’acqua e terra, e intanto che insistevo a frignare si ostinava a raggiungermi l’aria dell’oceano gonfia di sale.

Un sale morto, che arpionava le grida della folla di sotto. Spossato dal vento dei pensieri marini sentivo fremere dappertutto. Sotto la pelle squamata scorreva il sale e bruciava. Un fuoco abbiente abominevole andava incontro al mio cuore. In coda allo schermo passavano pupille spalancate, passavano veloci, annegate nelle lacrime, per sfuggire al fumo e alle cariche della polizia. Ora tifavo per la malattia, perché speravo che avrebbe estirpato la radice psichica dei miei mali — e me ne vergognavo perché temevo che il mio soccombere si sarebbe riflesso lì fuori —, ora volevo scendere in strada, portare la mia Zona Rossa in mezzo alla piazza e cercare maschere coi miei pugni di gesso.

Così decisi. Era tempo. Destro, sinistro. Destro, sinistro. Aumentavo il ritmo. Le uniformi schizzavano. Ho schivato un colpo, un altro, uno l’ho preso. La mia buccia infetta si è spappolata via dalle guance, di rosso in aria, ad arrembare le cellule, i capillari, le forze ordinate.

Campanella. Fine primo round. All’angolo il mister mi spremeva il succo a calci a continuare, a non dare tregua. Come un nocciolo morsicato nella mischia un occhio mi si è rotto di rosso. Secondo giro. Il trillo mi rimbomba il cranio. Uno, due. Destro, sinistro, destro. Destro. Con le nocche gli macchiavo gli accecavo la visiera. Se la tiravano su e gli spaccavo la fronte nelle labbra. Poi incassavo, incassavo bene.

Ed ero di nuovo all’angolo. Il mister non era contento, mi macellava le orecchie di insulti, mi spronava. Sporco cazzo frocio studente di negro. Mi sono sentito bianco, vuoto. Non sentivo più la campanella. Terzo giro, terzo giro. Ancora in piedi. No, giù, in ginocchio. Le cartucce di rosso me le esplodevano dalla cintura, da sotto la vita, dappertutto. Mi son scrollato, strappato la maglia intrisa di me, cercavo di ficcargliela in gola, dentro ai nasi, volevo sfasciargli dentro ai bronchi.
Ma non ne avevo ancora per molto, ho visto un cassonetto e mi ci sono tirato su, arrampicato fino in cima, in piedi. Maree nere e trasparenti di guanti di scudi di caschi mi urlavano a loro, si volevano rifare del mio male. Reclamavano un colpo di grazia, un volo da cantante punk, da wrestler.

E per quel poco di rosso che mi restava mi sono tuffato a bomba, mi son raso al suolo della loro plastica, a tappeto, finalmente, a corpo morto. E mi hanno masticato, acido e dolce, carne ocra, fino al midollo, fino a farmi perdere la linfa di ogni senso.

da Sololimoni — Videotestimonianza sui fatti di Genova, dvd+libro, regia di Giacomo Verde, commento poetico di Lello Voce, Shake ed., Milano 2011, 80 pp., € 17,90 — disponibile qui