Abdellah Taïa su “Atti impuri” e a Venezia

Taia È stato presentato oggi nella selezione della Settimana della Critica alla 70° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia il primo lungometraggio diretto da Abdellah Taïa e tratto dal suo romanzo L’armée du salut (L’esercito della salvezza). Nel nuovo fascicolo di Atti impuri, potete trovare un testo inedito dell’autore marocchino, intitolato Anushka. Come si legge nel saggio introduttivo a cura di Silvia Nugara:

La scrittura di Taïa, quasi sempre di ispirazione autobiografica, nasce dal corpo a corpo con una lingua amata ma domata, sminuzzata, ridotta alla sua essenza, vicina alle forme della sceneggiatura cinematografica. E non si tratta di un caso ma di un preciso discorso estetico, anche perché il ragazzo di Salé ha lavorato come assistente in diverse produzioni filmiche sulle due sponde del Mediterraneo.
Attraverso la parola – una parola di mediazione, di traduzione, di trasferimento – l’autore mette in dialogo non solo le diverse lingue ma anche i diversi linguaggi del suo mondo interiore: la letteratura, la musica e il cinema. Gli scritti di Taïa sono sempre generosi di riferimenti: da Mohammed Choukri e Paul Bowles alle soap opera egiziane, da La trilogia di Apu di Satyajit Ray alle melodie mediorientali di Abdel Karim Hafez, Oum Kalthoum o Shabana Azmi, da Jean Starobinski a Otto Preminger. La musica e il cinema contaminano l’orizzonte letterario e la scrittura di questo autore non solo tramite le citazioni bensì anche con dispositivi ritmici (la prosa salmodiante del recente Infidèles ne è un esempio) o visuali che danno forma alla narrazione. Nel racconto che qui presentiamo, per esempio, ritroviamo un elemento filmico classico: la finestra attraverso cui le vite degli altri penetrano in quella del narratore proprio come avveniva già in Voyeur à la rue Clignancourt (storia hitchcockiana contenuta nella raccolta Le rouge du tarbouche).
Anushka è ambientato nella Parigi delle drogherie orientali aperte a notte fonda come fossero a un’altra latitudine. Una città abitata da migranti di paesi lontani che vi hanno trovato la propria strada, la cercano oppure l’hanno perduta e languono ormai nel limbo dell’alcolismo e della depressione. Un bebè verdognolo, l’uomo che urla e cade, il bel cinese del negozio all’angolo, Mohammed l’algerino: attraverso ognuno di questi personaggi Abdellah Taïa cerca se stesso e scrive la propria storia.
Anche lui, come l’io narrante di Anushka, vive nel territorio scivoloso dell’entre-deux, diviso tra l’Europa in cui ha scelto di vivere e un Marocco da cui è fuggito ma a cui torna continuamente, che ritrova nei ricordi e nei desideri, negli oggetti d’uso comune, nel misticismo quotidiano dei djinn che scatenano impulsi incontrollabili, del malocchio da scongiurare, della buona sorte da invocare. Da esule e con il pensiero alla mitica madre M’Barka un po’ maga, un po’ strega, Abdellah Taïa reinventa soprattutto la propria dimensione spirituale popolandola con un personalissimo pantheon in cui Marilyn Monroe assume i connotati di una mistica orientale (in Infidèles), Jean Starobinski trasmette la fortuna con un tocco (nel racconto La baraka de Starobinki in Mon Maroc) e Jean Genet si trasforma per metamorfosi sonora in un santo marocchino (De Jenith à Genet in Le rouge du tarbouche).

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