Ariel
di Nicola Paccagnani

Paccagnani Fenchurch St1
Non mi sono mai ritenuto un tipo violento. Le persone inclini alla violenza fisica ricorrono all’aggressione ogni volta se ne dia loro l’opportunità. Io, al contrario, sono uno che pondera, che valuta la situazione, che crede nel dialogo quale strumento per eccellenza nella risoluzione dei conflitti. Il fatto che mi ritrovi a pedinare Ariel lungo Fenchurch St, con l’intenzione di compiere su di lui proprio un atto di violenza, non ha niente a che fare con la mia identità di persona. È l’odio che mi ha portato qui stamattina; mi ha tirato giù dal letto un’ora prima del solito, fatto vestire di tutto punto e convinto a risolvere la questione alla maniera degli antichi. Non è tanto il colore della sua pelle a darmi sui nervi, quanto piuttosto quell’incongrua acconciatura da uomo d’affari navigato che porta in testa.
È stata la prima cosa che ho notato di lui quando ci siamo conosciuti. Ci presentavamo entrambi per il ruolo di analista dati in una compagnia assicurativa della city. Ariel sfoggiava un sorriso fiducioso su un completo elegante, seppure l’abito fosse di scarsa fattura, il giovane asiatico sembrava avergli dedicato una cura metodica, quasi maniacale per farlo apparire decente. Mi aveva stretto la mano mostrando uno spirito di cameratismo che ci si può aspettare solo dagli stranieri, ed è stato allora che ho notato la scultura tegoliforme che portava sul capo. Ricalcata, forse, da una foto di Christopher Reeve nei suoi ultimi anni di vita, la capigliatura rigida di gel stonava apertamente con il viso da ragazzino pubescente che gli stava sotto. Ricordo di essermi domandato cosa spinge un uomo a violentare così i propri capelli, ma quando un istante più tardi mi ero trovato ad ammettere che, seppur anacronistica, quell’acconciatura fosse assolutamente perfetta per l’occasione, l’incredulità aveva lasciato il posto a un profondo senso di disagio. Era come se Ariel avesse messo tanto impegno nel costruire la sua immagine con il solo intento di sminuire la mia; magari per dimostrare che lui aveva più diritto di me a ottenere il lavoro.
D’accordo, se messi su due piatti di una bilancia, il peso della ragione trascinerebbe lui a terra, catapultando me dritto nelle fiamme dell’inferno. Ariel viene da uno dei quartieri più poveri di Manila, e se ha fatto strada lo deve interamente alla sua voglia di riscatto. Io appartengo alle periferie piccoloborghesi del centro Europa e ciò che so fare meglio è ironizzare su internet riguardo l’insensatezza della vita. Lui ha solo una madre invalida cui deve pagare le spese mediche, e io due genitori che hanno deciso di trascorrere la pensione sulle spiagge del Portogallo. La storia di Ariel è fatta dello stesso oltraggioso, umano, materiale di cui si compongono i romanzi dickensiani, la mia dei ritagli di riviste scandalistiche incollate alla buona sul diario di qualche anonimo liceale. Non esiste alcuna giustificazione valida per ciò che sto per fare, ma per bello o brutto che sia, nella società in cui vivo, le giustificazioni non servono se hai la pelle del colore giusto.
Mentre lo seguo a pochi metri di distanza, procedendo con il passo felpato di un felino in caccia, ravvivo l’odio che mi alimenta ricordando la sua brillante performance della scorsa settimana. Ariel aveva dato tutte le riposte giuste durante il colloquio di gruppo, ogni sua frase iniziava con un’espressione positivo-affermativa consegnata con chiarezza e perfetto tempismo: “Certo”, “Senza dubbio”, “Esattamente”. Eppure a lui non bastava fare bella figura. Scoccando le sue risposte con precisione, riusciva sempre ad anticiparmi, spazzando via i miei incerti “ehm…” di apertura come fossero trucioli su un tavolo da lavoro. Non era soltanto il ruolo da analista che voleva, il giovane filippino intendeva dimostrare che qualunque straniero poteva esercitare quella funzione sociale geneticamente disegnata per persone come me. Senza saperlo, Ariel stava soffiando folate d’ossigeno sul mio già ardente disprezzo.
So quanto sia facile confondere l’odio che provo con il banale senso di frustrazione che spinge un anonimo razzista di caffetteria a inveire contro il musulmano di turno, ma in cuor mio so che non può essere lo stesso. La rabbia che mi fa proseguire lungo il marciapiede risuona intima e pura, scollegata dalle connotazioni sociali su cui la stampa ama costruire l’indignazione popolare. Potrei sbagliare, ma a consolarmi c’è l’idea che mi basterebbe aprire un qualunque giornale per verificare che non sono il solo a commettere di questi errori.
Ora che lo vedo oltrepassare la caffetteria all’angolo con London St, so che l’ingresso dell’agenzia assicurativa è vicino, così come lo è il momento dell’azione. Taglio la strada a un paio di colletti bianchi e mi ritrovo direttamente alle spalle di Ariel. Dalla fodera interna della giacca estraggo la bottiglietta di plastica che ho preparato per l’occasione. Il liquido al suo interno è della stessa rassicurante trasparenza dell’acqua minerale, impossibile da identificare.
Fino in ultimo mi era sembrato di avere buone probabilità di ottenere il lavoro, dopotutto che motivo avevo di dubitarne, sia il mio passaporto che il mio titolo di studi hanno il sigillo del Regno Unito stampato sopra. Quando però ho visto l’intervistatore sollevare lo sguardo sui capelli di Ariel e aprirsi in un sorriso compiaciuto, ho capito che l’asiatico era riuscito a soffiarmi il posto. In quel momento già sapevo che gliel’avrei fatta pagare, dovevo solo capire come.
Mi distanzio di qualche passo e osservo Ariel che sale i gradini dell’ingresso. Ho bisogno che suoni il campanello e dia notifica della sua presenza per essere certo che non abbia possibilità di fuga. Il suo portamento fiero e lo sguardo vispo di chi vuole iniziare al meglio il primo giorno di lavoro non fanno che rafforzare le mie convinzioni. Ognuno legga ciò che vuole nel mio gesto, a me interessa solo la vendetta.
Non appena sento lo scatto del portone, svito il tappo e mi lancio in avanti. Corro due a due su per gli scalini e prima che Ariel metta piede nell’ufficio, gli rovescio in testa tutta la candeggina contenuta nella bottiglietta. Il liquido denso si mescola al gel sommergendo quella stupida acconciatura da uomo corporativo; ai miei occhi è come una cascata di patriottica giustizia. Nell’arco di qualche ora, il capo dell’esile filippino sembrerà il testone marmoreo di qualche scultura classica; bianco come l’arroganza delle mie radici, come la veste del privilegio, come la purezza della colpa.
Mentre sparisco dietro l’angolo di Mark Ln sento le grida dei passanti alle mie spalle: “Questo è un abuso!”, “Schifoso razzista!”, “Dovrebbe vergognarsi!”. Ecco il mio premio, la rivendicazione del mio gesto da parte di un nebuloso gruppo d’individui dalle idee confuse. Domattina leggerò della mia bravata sull’Independent. I titoli definiranno la mia un’aggressione razzista ai danni di uno straniero. Migliaia di londinesi s’indigneranno e ripubblicheranno l’articolo su altrettante pagine internet, abbellendolo di volta in volta con generiche frasi di denuncia contro odio e intolleranza. Per ogni nuovo commento, il quadro si allargherà coinvolgendo le istituzioni, la politica internazionale, l’educazione delle nuove generazioni. E per ogni nuovo sasso gettato nello stagno delle offese, la mia responsabilità d’individuo andrà sempre più diluendosi in quella collettiva; come una goccia di sangue in un bicchiere d’acqua, tingerà tutto di rosa restituendo a me un confortevole anonimato e a questa società la sua spensierata indifferenza.
Per questo non amo la violenza fisica. Gli atti di violenza suscitano il ricordo degli individui che li hanno commessi, mentre a quelli di abuso viene spesso data la veste di concetti astratti e idee sbagliate. Che bisogno ho di ricorrere alla violenza quando per vendicarmi di Ariel mi basta flettere di qualche grado questa mia splendida democrazia.

 

 

L’autore

Nicola Paccagnani, nato nelle Marche nel 1984 e laureato in Comunicazione, dal 2013 vive a Londra dove lavora nell’agghiacciante mondo del marketing turistico. Musicista per natura e cineasta per necessità, scrive perché le storie sono tutto ciò che abbiamo, quantomeno finché non si troverà un senso più pratico all’esistenza.