Piano per una fuga
di Andrea Scarabelli

Questo non lo avranno mai, dicevi, e invece sì. Cade la pioggia, trafigge tutto. Da quando vivo qui ho imparato a tenere in ordine la casa. Ci sono tanti palazzi grigi che mi sembrano spuntati durante la notte, ogni volta che esco sul balcone. Non riesco ad abituarmi a loro. Ci sono anche degli alberi di castagno. Una volta mi ero detto che era inutile cercare giustificazioni, di continuo, per la mia cronica incapacità a concretizzare le mie tensioni; soprattutto era ora di smetterla di imputarla ai luoghi, alle pareti bianche del nostro paese. Mi sbagliavo, sono venuto qui, è cambiato tutto per davvero. Quando sono sceso dall’aereo era diverso da quando c’ero già stato, in vacanza, come se avessi preso il volo sbagliato. Mi sembrava una città come tante altre, non un sogno. Pioveva. Ci ha messo del tempo a smettere e ora ha ricominciato. L’appartamento è saltato fuori dopo un periodo di prova, stavo in ostello, non ho voluto chiamare nessuno, ma chi poi? C’era giusto un conoscente, qui, che credo ci sia ancora. L’ho incontrato una volta, per strada, quando ero già sistemato da un po’, e mi ha chiesto cosa ci fai qui, ho risposto sono in vacanza; ci eravamo dati appuntamento il giorno dopo per celebrare l’incontro, incontrandoci di nuovo, in una strada con palazzi meno alti e molti bar. Tra un bicchiere e l’altro lui mi raccontò cose sulla città, sulla sua vita qui, sulle abitudini che la rendevano differente da quella nel nostro paese. Lo ascoltai con pazienza, senza riuscire a liberarmi della sensazione tagliente di vivere in una bolla. Non avevo visto niente di quello che mi descriveva. Lui continuò a parlare, a bere, a guardare una ragazza con un vestito estivo, luminoso, seduta al tavolo accanto. Mi chiese del nostro paese, voleva sentire le novità. Da quando me ne sono andato non leggo nemmeno i quotidiani online, mi spiegò, non ci riesco. Gli elencai gli ultimi fatti di cronaca, le elezioni, gli omicidi eclatanti, la composizione del governo, le scissioni, le catastrofi naturali come i terremoti, insomma gli unici argomenti capaci di scaldare i nostri connazionali. Dovetti inventare tutto, dato che nemmeno io riuscivo a tenermi informato. Lui sembrò soddisfatto. La ragazza estiva ci chiese d’accendere. Tra l’altro tecnicamente non era estate, era il venticinque di settembre, ma stranamente faceva ancora caldo. Poco dopo stavamo camminando lungo il fiume insieme a lei, circa un’ora dopo, ci spiegò di essere inglese e annoiata; la sua compagna di viaggio era tornata a casa, qualcosa non era andato come previsto. Fui tentato dal chiedere spiegazioni, ma lasciai perdere. Accanto al marciapiede passavano le macchine, ma non erano molte, e ci trovavamo pur sempre in una metropoli. Da noi ce ne sono dieci volte tanto, con la metà degli abitanti e dei posti dove andare. Provai a informarmi sull’Inghilterra ma la ragazza rise, mi urtò leggermente con il gomito. Non faceva più caldo, era sceso il buio e con lui un vento gelido. Improvvisamente ero stanco di tutta quella sceneggiata, stanchissimo. Lei ci invitò a salire in albergo, io provai a tirarmi indietro, sospettando che in realtà l’invito fosse per il mio conoscente, ma lei insistette. Ci voleva entrambi. Appena tirata la porta dietro di sé lei si chiuse in bagno, con una scusa. Il mio conoscente commentò che la stanza era un bordello, e che le inglesi l’igiene personale non sanno nemmeno che cosa sia, ma comunque era una piega inaspettata della serata, della nostra rimpatriata, era meglio di niente. Rimpatriata, questa parola innescò una serie di pensieri in me, come un domino che cade urtando quello successivo, alla maniera dei domini. Quasi non lo sentii quando aggiunse che purtroppo da lui non potevamo andare, c’erano i suoi coinquilini. Lei uscii dal bagno, meno vestita di prima. Succedono cose davvero inaspettate, continuamente. È impossibile mettersi al riparo, o attutire l’impatto, non importa quanto si sia cinici, fantasiosi, o idioti. Siamo tutti uguali, nessuno è speciale. Lei uscì dal bagno, procedendo verso il letto, e fermandosi subito prima. Fece una domanda, non la ricordo. Quello per me era sempre stato soltanto un conoscente, uno di quelli che incontri per caso, la cui attrattiva principale consisteva nell’essere scappato dal nostro paese per andare a inseguire qualcosa che non aveva un nome in un altro, perché diceva che in Italia non si poteva più vivere, non con quello che stava succedendo; in sostanza aveva fatto quello che volevo fare io. Quello che feci, più tardi, all’incirca sei mesi prima della storia che ti sto raccontando. Da quella sera non riesco a levarmi dalla testa il ricordo del suo culo nudo che staccava sulla schiena abbronzata, mi appare più nitido del suo volto. L’abbronzatura dell’inglese, invece, era abbastanza uniforme, come da copione. Dopo li salutai, lui si trattenne ancora un po’, mi congedai dicendo ci si vede tutti dappertutto. Mi fissarono sorridendo mentre lasciavo la stanza, ma giurerei di aver visto un’onda di perplessità attraversare i volti di entrambi, per poi disfarsi. E anche di tutto questo non mi è rimasto niente. Spero di non incontrarlo mai più, il mio conoscente, perché sarebbe molto più difficile adesso fingere ed essere creduto. Cade la pioggia, trafigge tutto, trafigge anche me. Sono sul balcone.

Il titolo Piano per una fuga è preso in prestito da una canzone dei  Ministri