Il verde in amore
di Andrea Scarabelli

Passa il tempo mentre ci domandiamo se tornerà ancora il verde in amore. Lui la inseguiva, senza accorgersi di cercare qualcos’altro, qualcosa senza nome. A volte per avvicinarsi a lei prendeva l’autobus, altre volte il treno; lei di solito si allontanava. Era primavera, questo l’abbiamo già detto, e lei chiamava quella stagione il tempo verde. Lui aveva iniziato a sentire una mancanza agrodolce e aveva spiegato agli amici di essere innamorato, perché dormiva male di notte, mentre prima dormiva sempre come un morto. Adesso era morto di giorno e tutti lo additavano per strada, senza capire da quale cimitero fosse fuggito, quel cadavere così diverso dagli altri cadaveri. Passa il tempo mentre liberiamo bisce di frasi senza comunicare con nessuno. Dato che tutto si complicava, lui tentò di imporre un ordine, associando a quella cosa un colore, un nome. Decise che era verde e la chiamò ronzio. Oggi il ronzio mi prende un po’ sotto lo sterno, diceva ad alta voce, sperando che qualcuno lo consolasse, o almeno lo facesse ridere. Oggi il ronzio preme il gomito, ho dormito molto poco, sono uscito in bicicletta e la giornata mi aspettava verdissima e io ero verde dentro, ho perso i contorni, svaporando fino a diventare le cose intorno. È durato un po’, è stato strano; raccontò quando finì. Passa il tempo mentre nubi color lago si arrotolano dietro i palazzi. Lei reagiva accendendo sigarette sul balcone, contro il cielo; sopra i suoi capelli si articolavano arabeschi di fumo color meringa. A volte però anche lei scendeva in strada, camminava per le vie, nella notte arrossata, negli aloni di smog, nell’insonnia degli uffici vuoti e illuminati. Nelle luci. Ci siamo incrociati per caso, in una stradina del centro, non c’era nessuno nel raggio di chilometri; sentivo i ciottoli del pavè attraverso le suole delle scarpe, era una sensazione un po’ bella e un po’ no; un po’ come rivederla, dopo tanto tempo. Ci ignorammo. Tornai a casa con l’impressione di essere partito e aver dimenticato qualcosa nel fare la valigia. Lui fu colto da un attacco lancinante di ronzio e mi citofonò, erano le cinque e un quarto del mattino, c’era già luce e io ero sveglio da mezz’ora senza più speranza di dormire. Gli aprii la porta. Sembri un morto, mi disse. Anche tu, risposi, sincero. Evitammo di guardarci, facemmo colazione. Passa il tempo mentre cantano feroci orchestre di uccelli all’alba. Di giorno non c’è traccia di loro, chissà dove vanno. Lei non lo sapeva. Quando si vedevano, lei aveva un’aria leggera e sembrava che i suoi vestiti facessero piroette senza spogliarla, purtroppo. Lui doveva accontentarsi, almeno in quei momenti il ronzio si acquietava, come un cane, e poteva allungare la mano, toccarle le spalle; lei era molto minuta e di solito lo abbracciava, si stringevano con forza dentro una biglia di luce verde evidenziatore; attorno a loro i passanti li osservavano con straniamento, con insofferenza, con dolore, chissà cosa ci fa quella donna abbracciata a un morto, si chiedevano. Passa il tempo mentre pensiamo in disparte tutti le stesse cose. Una sera a settimana bevevo moltissimo, era la mia vacanza. Mi trascinavo ridendo, incespicavo, ogni tanto bastava un dettaglio a farmi odiare qualcuno. Pensavo alle montagne, così solide e lontane. In realtà erano piuttosto vicine, ma le celava lo smog; nessuno poteva vederle, mai. Mai, ecco una parola che mi fa paura. Mi fa quasi piangere. Lei quella primavera pianse tutti i giorni, a orari diversi. Quelle lacrime non erano una posa, erano una reazione non identificata. Voglio stare così per sempre, disse lei, a un giornalaio. Come dice, signorina? Nulla, mi scusi, parlavo tra me e me. “Internazionale”, per favore. Passa il tempo mentre rimbombano tutte le nostre azioni in una centrifuga. Lui non riusciva a piangere, c’era troppo ronzio, ormai dappertutto. Provò a drogarsi per attutirlo, fumò delle stagnole ma poi smise; non si attutiva affatto. Era la stagione dei pollini, le strade della città erano invase da fiumi bianchi, battute da una neve che faceva starnutire. Lui riuscì a piangere un po’, ma soltanto per l’allergia. Ricordo un pomeriggio in cui mi arrabbiai moltissimo, perché non stavo facendo niente e intanto il tempo passava, distruggendomi, smontandomi con cura. Mi faceva quasi piangere. Presero il treno: lei, lui, lui, io, lui. Lei sentiva i binari scavare una strada dentro di sé. Passa il tempo mentre i treni rallentano accumulando ritardi. Lui una volta mi confidò che quando qualcuno lo salutava dicendo “A presto”, rispondeva “Ci si vede tutti dappertutto”, e in questa frase secondo lui era condensata tutta la stanchezza che lo perseguitava da sempre. Sempre, un’altra parola che mi fa paura. Andiamocene via, disse lui, ma non sapevamo dove. Andiamocene via, disse lei, molto tempo prima. Non partimmo; non credo lo faremo più, ma chissà. C’è troppo ronzio. Passa il tempo, passa il tempo, passa il tempo. È di nuovo primavera e mi troverai quando le foglie saranno tutte verdi, finte, nuovissime, di quella tonalità così fluorescente, quando saranno di plastica.