La carne francese
di Arturo Cellini

Bisogna ammetterlo. La carne francese è talvolta migliore di quella piemontese, e di tante altre. Io ad esempio ho un caro amico, Francesco Ferdinando Scala — chiamato familiarmente Fra, FraFer, o al limite Ferdi —, che per me è come un fratello maggiore che abita in un’altra città e, ogni volta che ci si vede, grandi sentimenti e lacrimoni asciugati di nascosto per salvaguardare le rispettive virilità. Ora, in verità abitiamo nello stesso quartiere e impiego esattamente dieci minuti a piedi per andare da casa mia a casa sua, ma era giusto per spiegare come stanno le cose fra noi.
FraFer milita nel Grande Partito della Sinistra, nel GPS cioè, e insomma, nessuno è perfetto, ma se c’è un uomo che risponda pienamente ai requisiti del militante esemplare, quello è FraFer, che ha come una specie di navigatore installato nell’emisfero sinistro del cervello e non si perde mai ma dico mai; arriva per la prima volta in una capitale dell’Est — che ne so, Tallinn — e dopo cinque minuti ha già capito quale sia il percorso più breve per andare dal punto A, dove ci si rifocilla di specialità locali (nel nostro esempio, spratti e verivorst), al punto B, dove si approcciano le locali ragazze ormai gonfi — gli uomini — di vodka, che in Estonia costa così poco, pare, che i finlandesi hanno un traghetto utilizzato esclusivamente per andare lì a fare il pieno di alcolici.
Insomma, altro che «Ricalcolo», FraFer non si perderebbe neanche se lo volesse, è come certi musicisti che hanno l’orecchio assoluto e di una nota ti sanno dire frequenza e altezza, e lui è come loro solo che il suo dono è un assoluto senso dell’orientamento, tanto che a volte lo pagano in nero per riscrivere gli itinerari sui siti tipo ViaMichelin o per riprogrammare quelli dei navigatori (anche se forse questa cosa del nero non dovevo dirla, perché nel suo partito fanno della questione etica un fiore all’occhiello; «Sì, di plastica», gli dico io per sfotterlo, e lui mi strizza immancabilmente un capezzolo, e mai che riesca a essere più veloce di lui nel prevenire questa mossa ormai prevedibile).
Ma sto divagando. Voglio dire, FraFer i vari punti B (e rispettivi lati) non li frequenta più molto spesso, perché è ormai felicemente sposato da tre anni con Luisa Riviera — la chiamo io Riviera perché di famiglia è originaria della Riviera di Ponente, e inspiegabilmente non ricordo mai il suo nome da signorina) —; ma spesso, quando lei non c’è, si dà alla pazza gioia organizzando sedute di autocoscienza e dibattito gastro-culinari nella casa di famiglia a Colcavagno nel Monferrato. Se le previsioni sono state accurate, la giornata è bella, splendida, e si viaggia con i finestrini abbassati, respirando a pieni polmoni l’aria che a mano a mano che ci si allontana dalla città si sgrava delle diossine, dei monossidi di carbonio, e invece di stagnare sulla città accarezza le fronde dei tigli che costeggiano la Provinciale e i nostri capelli. Io, allora, chiudo gli occhi e lascio che mi colga come un leggero capogiro alla vibrante metempsicosi del concime nei campi di frumento e di granturco, e un’euforia sempre nuova di ritrovare il naturale ritmo della terra che resiste alle offese del barbaro umanesimo contemporaneo.
Arrivati a Murisengo accostiamo sotto un muretto che sembra sghembo perché costruito su una strada in salita (o in discesa), scendiamo dalle macchine e saliamo lentamente la rampa di scale che porta alla macelleria di Teodoro. Si chiama proprio così, e chissà dove i suoi hanno scovato il suo nome. Teodoro probabilmente non ha mai messo piede più a sud del 41° parallelo, ma le bestie da macello, con tutti gli animali che ci sono in Piemonte, lui le compra in Francia. E che bistecche coll’osso, che salsicce, che spiedini, che capocolli, che fusi e petti di pollo, che salami!

 

E così è stato anche dopo che mio padre se ne era andato, proprio l’anno in cui FraFer si era sposato; un pomeriggio di fine estate è venuto a raccattarmi a casa, dove da una settimana mi ubriacavo di rabbia e liquori cattivi, per portarmi in campagna e farmi riprendere con del vino buono.
In mancanza di Dario Lancia, che è tipo il miglior grigliatore della compagnia e di solito se ne occupa lui, ci siamo alternati al fuoco passandoci la forchetta con il manico fissato a una prolunga ricavata da un rametto perché il cuoco di turno non si cuocesse anche le dita, e bevendo uno o due bicchieri di grignolino abboccato abbiamo grigliato salsicce, capocolli e spiedini. Una lieve brezza si portava via il fumo spesso di castagno, e noi restavamo lì davanti a inspirare forte l’odore della carne francese che sfrigolava sulla griglia.
Il sole scendeva dietro le pieghe dolci dei campi, oltre le chiome incolte del melo, del pesco e del pruno nel lenzuolo di terra dietro la casa avita, e il momento sembrava ideale per chiacchierare, sparare cazzate, e per un po’ sono riuscito a dimenticare la tristezza, a ritrovare nel calore di una sbronza intima e felice l’assenza di qualunque affanno, il vuoto da riempire soltanto con le impressioni di quel giorno. Finita di cuocere la carne, ci siamo seduti sotto l’olmo a mangiare di gusto, bagnando la mollica nell’intingolo che si raccoglieva sul fondo del piatto, e vuotando un altro paio di bottiglie di dolcetto e di barbera abbiamo brindato ai vivi e ai morti.
Poi siamo rimasti zitti per un po’, in una tacita intesa fra due amici di lunga data che non avevano più bisogno di rompere il silenzio per vincerne l’imbarazzo. Nel silenzio ruvido della campagna si sentiva qualche cane abbaiare, e i primi grilli. Le zanzare ci stavano lontano, come donne che non comprendevano la nostra bellezza; ma meglio così. Mancavano soltanto Emanuele e Dario, con la sua boccaccia piena di oscenità così gravi da apparire sempre innocenti e sublimi.
Dando fondo al vino, si era fatta sera e a un certo punto sono spuntate le prime stelle. Il blu scuro della notte scendeva come un palpebra sopra i rossi che infuocavano ancora le vigne, le spighe e gli alberi da frutto sulle creste. E tutto sembrava rispettare l’ordine naturale delle cose, anche le morti e i lutti recenti, come l’uva schiacciata nei tini e le bestie francesi macellate da Teodoro per noi. Io avevo la testa leggera e il corpo un po’ pesante. Guardando le stelle che ammiccavano sopra il confine fra il giorno e la notte, una sottile linea bianca senza né prima né poi, sentivo di dover rendere grazie per il banchetto. Mi sono alzato un po’ incerto sulle gambe, invitando FraFer a fare lo stesso, e ho detto soltanto: «Grazie.» E come prima avevamo dedicato brindisi su brindisi e parole goffe agli uomini e alle bestie che c’erano più, così adesso dedicavamo loro il nostro devoto minuto di silenzio.
Ma poi è successo qualcosa di terribile, che ancora mi sgomenta perché non riesco a identificarne l’origine, e nemmeno riesco a dire perché mi abbia così turbato. Il vento ha portato il rantolo di qualche animale, l’afrore di pelli rivoltolate nel fango e negli escrementi. Mi sono voltato verso FraFer, che cogliendo il mio sguardo ha detto: «Sono i maiali.» I maiali… E io ho pensato qualcosa di sciocco, e cioè che non sarebbe stato lo stesso con un chilo di carne kashèr o halal, proprio no, e nemmeno con la carne piemontese di Giacomo Pesce — a detta di FraFer, il secondo macellaio migliore del Monferrato —, e che non avremmo potuto bere vino, o grappa. Insomma, che quella giornata non sarebbe mai stata la stessa. E a quel pensiero assurdo, mi saliva alla gola una strana angoscia, il vuoto nuovamente pieno dell’orrore dei miei giorni recenti.
Ho messo una mano sulla spalla di FraFer e lui si è voltato senza dire nulla, ha annuito con la testa come a dire: “Giornata perfetta” e non ha capito che adesso mi aggrappavo a lui, omaccione brizzolato e rubizzo, come a un fratello maggiore. Lui dritto, impettito, e io con le gambe molli e un nodo in gola per il lamento dei maiali, e mentre scendeva la notte io iniziavo a tremare per quei pianti distanti, senza capire dove fossero, se a destra o a sinistra, se laggiù davanti a noi, a ponente, o alle nostre spalle dov’era già notte fonda, e per l’orrore non potevo più parlare, come se la lingua e tutte le parole le avessi annegate nel vino o inghiottite con la carne francese cotta alla brace…

 

I stesura: 17-18/11/2015