Esperienza del 63/ pt.1 – Oltre il Diluvio
di Tommaso Ottonieri

 

3_gruppoQuesto saggio include, appena ritoccati, interventi scritti in occasione del precedente anniversario del Gruppo ’63, e già pubblicati sul settimanale “Carta” e sulla rivista “L’illuminista” (per quest’ultima: n.8/9, dicembre 2003)

 

 

 

 

 

1. Oltre il Diluvio (come un Preludio)

“ma l’avanguardia continua, ed è esperienza”
John Cage

         «Aussitôt que l’idée du Déluge se fut rassise»: non appena l’idea del Diluvio – si fu seduta, si fu calmata, fu tornata al suo posto. – L’idea del diluvio, si distingue, miticamente, per il suo carattere di evento aperto, mai definitivo; diluvio è segno di germinazione e rigenerazione (del mondo): se un diluvio è lì a distruggere e trascinare via, è perché (biblicamente) la società dei padri ha prodotto i suoi mostri, i suoi tentacoli, ha sciorinato le sue forme sclerotizzanti e altrimenti inestirpabili: è perché, quanto meno, le forme sono ormai esaurite, sono contenitori vuoti, vanno fatte a pezzi perché possano generarsi altre forme (perché, dentro il guscio delle forme, possa scorrere nuova linfa); è dal vuoto di forme, che il diluvio (la sua idea) può generare altra epoca, altra plastica delle forme.

Eppure, ciò a cui ci richiamava Rimbaud nella prima e germinale delle sue Illuminations, è la necessità, per ogni assoluto di modernità (che non finisce, mai, ma di continuo si rigenera, generando ogni volta controversie sue proprie), è la necessità di sempre pensarsi nel diluvio. Se, prima del diluvio, c’è il blocco del potere e lo scatenamento dei suoi ultimi mostri, dopo, «après le déluge», passato l’idillio che ne segue col suo dì di festa e la sua sera, nulla vi è di nuovo se non lo stabilirsi di un ordine; che andrà nuovamente infranto (e i diluvi, «rianimati»), se – chiudeva lui, uscito da una Stagione all’Inferno – vogliamo apprendere il sapere della «Sorcière», e non smettere di lavorare a una liberazione collettiva/individuale. La cui soglia, è chiaro, si sposta continuamente: affrontando il rischio (così avvenne per Rimbaud) che la liberazione, l’uscita dalle forme, non divenga che un’ebbrezza di deriva.

Accade, allora, a Bologna, ai 40 anni del ’63. C’è questa tavola rotonda chiamata così, Le ragioni del gruppo, e il caposcuola del gruppo, poeta intellettuale massimo del secondo 900, E.S. insomma, pronunzia il fatìdico motto che già fu del Re Sole (siamo nel teatro detto Arena del Sole). Nell’attribuirsi (fin dal 1961) la sigla di «Novissimi», i poeti del ’63 avrebbero già chiaro il valore terminale della loro vicenda: ‘novissimi’ come ‘ultimi’ – ultimi venuti in ordine di tempo ma anche finali, conclusivi, apparsi sul bordo estremo di una possibilità di agire attraverso la parola (rivoluzionando le parole). E ciò, giusto perché consapevoli del momento storico in cui quell’esperienza estetica (e politica) si consuma: dell’ultimità di quel tempo, che giusto allora, nel nesso storiografico che definiamo «anni ’60» col suo boom industrial-economico, si avviava a compiere il progetto avviato, da quasi due secoli, dalla borghesia capitalista – quella parabola che dalla rivoluzione industriale avrebbe portato alla globalizzazione, a quel sistema insomma che si assimila ed ingloba ogni possibile parola. «Après moi le déluge» (ipercapitalistico diluvio): ma allora, cosa sono quelle candeline (parrebbero, candeline) su cui si sta soffiando, nella storica, un po’ Shining, foto di gruppo (completa di un maestro vecchissimo che già aveva consumato – secoli di decenni addietro – la sua Allegria di Naufragi)? È il saluto, o invece è il congedo, di un’idea di letteratura? E quel diluvio, non doveva giungere a ri/generare?

Eppure. Il diluvio su cui quell’esperienza stessa andò ad infrangersi, non fu tanto il rivelarsi dell’era globale (o di quella ‘postmodernità’ il cui avvento era inscritto nel progetto capitalista…), quanto l’età caotico-rivoluzionaria, l’avanguardismo di cruauté diffuso/permanente (ultima, e forse unica, avanguardia-in-vita) dell’ «orda d’oro» da ’68 a ’77, nella luce di Artaud (di Rimbaud), più ancora che di Debord (o di Tzara). È lì, nell’occhio di quel Déluge, che siamo ripartiti. Ed è questo precisamente che abbiamo appreso attraverso e senza i nostri maestri: essere nel diluvio, qualunque esso sia, liberando il nostro linguaggio dell’ideologia (cioè anche, della merce) che va a incrostarsi su di esso.

Nelle note brevi a seguire, vorrei provare a mettere a fuoco alcune delle germinalità più inesaurite, o delle più aperte tensioni categoriali, in cui, nell’incombere plumbeo della teoria dei diluvii avvenire, quella generazione trovò le ragioni vive del suo agire. Di quegli accrescimenti di vitalità, che l’arte, se è, protrae oltre ogni fine; per tradurli in possibilità, ancora, di esperienza.