Fuga senza fine /5
di Tommaso Ottonieri

5.

Inventi mondi al girare dell’anello: incastonato, l’occhio che si stacca dall’argento; e che ti assorbe, bulbo senza luce, scatto dopo scatto al suo allargarsi.

E sono mondi a guardare, all’altro capo di quel buco nero che scintilla, e dalla loro inclinazione sconosciuta, sono loro a scrutare le tue onde. Per decollare alla fine di tutto, in verticale come in fondo a un conto alla rovescia, come se fosse possibile liberarsi delle scorie che in strisce minute corrodono la pelle: dissaldarsi dalla colla dei nei, che ti costellano, tu stesso una galassia a te lontana, quando sembrava implodere.

Una galassia intera a comprimersi a esplodere altrove, negli interstizi d’uno spazio più alieno.

Girano abissi dal magnete dell’anello, una galleria che si stende fino all’altro capo del mondo, una gettata d’acqua morbida d’asfalti tra i viventi oblò: bordi occhiuti che digrignano di squama, uno scatto d’immani dentature. E improvviso, il fondo si apre, come nel vento una prateria argentata, fendersi d’erba nel galoppo digitale d’una tigre.

Abissi s’aprono a succhiarti via, ovunque via; purché sia fuori della spirale acuminata degli occhi da cui fuggi, tesa elastica su te per fonderti al gelo del suo metallo di cometa.

Purché trapassino l’incandescenza del nucleo gli abissi e arrestino il ruotare della terra. Giusto per un attimo. Per quell’attimo, giusto che la luce sovraesponga, che s’imprima sul battito del tempo.

Giusto a bruciarlo, lo scivolìo fermo del tempo, che la pellicola ceda in un getto di secondi, e s’apra da un suo scatto, dal suo cuore, e sbriciolando sotto il proiettore e sia fatta cenere.

Sbucare dall’altro lato del mondo, senza banchina, senza approdo. Sul vapore d’un miraggio che si rapprende, come scroscio di mura a erigersi dall’acqua. Sotto una lana ruvida di soli gravitanti, un candeggio di raggi con forza ad allargare fori nella spessezza del cielo ad ingoiarlo; e un vento crèpita una città dall’acqua si spalanca, s’eietta infuori dal magnete dell’anello, in un sussulto il tempo si scolla dal quadrante.

E più nulla a girare, nulla più è ruota se non la coda alta dei pavoni appollaiati sulle soglie. Miliardi d’occhi che scrutano sull’onda aperta delle penne, per popolare il loro mondo fuori squadro.

Una grotta di cartapeste, che sorbivo l’ultimo pesto alcolico verde di menta, che ne esalavo fuori quasi fossi nulla più che spirito: una sospensione di cartapeste luminose, appese ai fili, mentre ero morto in tutto e oltre la vita a tal punto che la grotta aderiva allo sfarsi dei contorni, in morbidezza di zucchero. E accecavo il bagliore sospinto dai miei palmi, contro un risplendere di madonne nere che sfondavano la cartapesta, proprio a scartocciarsene, a mezz’aria stampando nella grotta questo ingigantirsi di labbra. Lento m’oscillava lì intorno tutto quello che restava sospeso, e circondato dal circonfondersi di labbra io nella fusione degli occhi, nel fuso negro della pietra incastonante.

E guardavo quella grotta come un’ultima tana, quella in cui sciogliersi. Finalmente sciogliere. Tra le pareti di zucchero. Senza spessore, senza consistenza, il solo luogo per cui il sogno sarebbe stato dolce, un’armonia di pelli senza più lingua, una bocca in cui ingoiarsi senza fine.

Ma dovevo restare fedele al mio destino. Allo sguardo di ragno della mia solitudine, che mi chiamava indietro dall’altro lato degli abissi, agli ultrasuoni trapanati di silenzio, pronunziati perché potessi perdermi per sempre.

E penso allo stagno dei chiarori rossosangue, senza fondo. In cui di nuovo sarei emerso di lì a poco.

A contare gli ossami che infiniti risquamano su me gli ultimi lembi di pelle, e non c’è vento a poter spingerli via.

La polta, la secca. Da cui dovevo fuggire. A cui mi riconduce sempre, e sempre, il vibrare a precipizio del silenzio intorno, come làmina il suo metallo infinito d’occhi.