Esperienza del 63/pt.3 – Montaggio; crudeltà/Contro la fissità dell’universo
di Tommaso Ottonieri

4. Montaggio; crudeltà

 

A istanze come quelle, che citavo – inveramento per finzione, diciamo, straniamento entro il corpo d’una realtà dominata dall’artificio (da mettere a nudo e reinventare a mezzo di altro artificio), o ancora, puntuale crudele autocontestarsi del Poema – è giusto a queste istanze, che andrà ascritta la questione citazionismo, che anima le pratiche di questi autori per soluzioni varie eppure tutte (se posso dire) critico-ejzensteiniane (ma il ‘900 è il secolo del montaggio, sarà stato – da Sanguineti in primis – messo in rilievo…): una questione affatto nevralgica, di era in era, al fare della letteratura, ma che in essi verrà messa criticamente in rilievo, e che tornerà imperante e ‘normalizzata’ un paio di decenni più tardi nelle estetiche del postmoderno, come forma ormai esemplarmente acritica, sintomo d’una estetizzazione globalmente realizzata, merce-cultura all’infinito intercambiabile e tuttavia priva di valore d’uso e di scambio… Qui, la citazione porta in sé una componente di straniamento assai più che di riconoscimento (l’oggetto citato è rinquadrato in un contesto che lo rende irriconoscibile, in rapporto a se stesso così come al contesto d’arrivo); nell’introduzione ai Novissimi, sarà Giuliani a notare come «riportare» voglia dire istituire una «funzione esasperante l’oggetto», qui pensando al lavoro di Sanguineti: quest’ultimo, per contro, in Ideologia e linguaggio, noterà che «l’esperienza del reale in cui siamo immersi, ivi compresa, per supremo sintomo, la nostra capacità di pensiero, si rende possibile di fruizione soltanto se vissuta autenticamente come residuo» (l’occasione di questa riflessione è data dalla poesia di Balestrini, per la quale pure Giuliani avrà a messo in luce la costanza d’una straniata salvazione, nel recupero/riuso e – volendo – risignificazione dei «pezzetti di realtà di per sé insignificanti e destinati a scomparire nella ruota del consumo»).

Ma non meno radicale, rispetto a modalità come queste d’un citazionismo (diremmo) della crudeltà, «sperimentazione critica delle gerarchie del reale, quale è vissuta nelle parole» (ciò che sarà insomma uno dei cardini possibili su cui operare quella «rivoluzione sopra il terreno delle parole» – autonoma rispetto alla stessa rivoluzione – che per per Sanguineti è una possibile letteratura della crudeltà), appare l’istanza bricolage, l’estetica dell’inventario, avanzata specie da Arbasino in Certi romanzi, sulla scorta di Flaubert, certo (Bouvard et Pécuchet), ma poi di Lévi-Strauss (per cui è la natura intrinsecamente mitica del segno a far sì che ogni scelta dal materiale inventariato, possa trar con sé «una riorganizzazione completa della struttura, che non sarà mai identica a quella vagamente immaginata»), o soprattutto dell’operazione strutturalistica come definita da Barthes (il movimento che – da una decomposizione in elementi primari e frammenti mobili, brechtianamente, e forse ejzensteinianamente – conduce a una ricomposizione tramite gli stessi); ma sarebbe possibile rifarsi, per altri versi, al concetto di immagine sviluppato da Ejzenstein: ossia obraz, nella sua etimologia derivante da “taglio” (da una sequenza, da un inventario…) e insieme da “rivelazione” (capace di mostrare i legami tra il fenomeno e quanto lo circonda…) – nel suo formarsi entro una dinamica di disgregazione-ricomposizione (perché un’immagine, eidetica o cinematica, non può sorgere che dai frammenti di un’infinità d’altre immagini).

Tramite l’operazione barthesiana, cui si riferisce Arbasino, la mimesi giunge a istituire una forma di «realismo critico» che intende «rappresentare interpretando» (e qui è uno spazio non così distante dalla dissonanza adorniana…); e se in questo si manifesta una fiducia (straniata a sua volta) nella finzione e nella sua capacità di «ricostruire un oggetto», ciò è perché, per la sua natura di «simulacro dell’oggetto», questa (al pari della “struttura”) fa apparire, nell’oggetto imitato, «qualcosa che resta inintelligibile nell’oggetto naturale» (e l’ampio stralcio importato da Barthes ha qui valore quanto mai dichiarativo). – E importa, allora, che forme e finzioni acquistino realtà più dalla materia, dalle materie – sfocate, contundenti, ‘illeggibili’, comunque – di cui esse s’intessono («la tangibilità della trama, dei fili, delle fibre», a continuare con Ejzenstein), che dalla loro funzione rappresentativa, col vettore relativamente univoco di ‘significato’ che tale funzione può imporre; (perché, ciò che le pratiche del montaggio ci hanno insegnato soprattutto, è il potere realistico dell’ ‘inverosimiglianza’…)

 

 

5. Contro la fissità dell’universo

 

L’opera verbale – poema o romanzo che essa sia – si articola dunque per condursi oltre se stessa, per disarticolarsi contro se stessa; a scavalcare, tramite l’artefatto deliberato d’una mimesi, la medesima, integrale prescrittività della lingua come pretesa di realtà (per approdare, in questo, alla forma svelata del reale); a porsi, finalmente, nella sua natura critica, sinteticamente decostruita-ricostruttiva, d’immagine “tagliata” e “rivelante” (si diceva: obraz). A rivelare, infine, una forma che ci mostri «le cose esattamente come sono» (Cage, citato da Sanguineti); pratica irriducibilmente ‘sperimentale’ (nel senso, di ‘esperienziale’, non meno): a riconsegnarci oggetti aperti, «forme aperte», capaci di stabilire (come voleva Anceschi) contatti possibili per «società aperte».

Tra nomadismi, pratiche dell’impossibile, e una contestazione dell’esistente che non risparmia nulla innanzitutto in chi operi la contestazione, quest’anti-letteratura (nel senso soprattutto, lo abbiamo visto, di letteratura agita contro l’istituzione e contro il proprio stesso carattere istituzionale nel caso, «perché l’opposizione agisca da opposizione, e abbia i suoi testimoni»: Pagliarani), si puntava contro la totalità/totalitarismo di un sistema che prima d’ogni altra cosa è dunque linguistico (ideologia-come-linguaggio, naturalmente; e viceversa); e che è capace di confermarsi anche attraverso l’alibi della letteratura. – Sarà forse questa costante così intrinsecamente ‘anarchica’ (dico qui per inciso), la principale indiziata per quell’aura di sconcerto e ‘terrorismo’ culturale, che a cinquant’anni di distanza, non smette di ammantare il gruppo, facendone (per il gioco globale del Sistema) una ‘eccezione’ ancora tanto pericolosa, capillarmente da rimuovere? «Avanguardia» scrive Cage, e Sanguineti puntualmente cita, «è sinonimo di invenzione, scoperta e cambiamento: e queste sono qualità essenziali che saranno sempre là a irritare la gente»… –

Ma vediamo allora, in appendice all’antologia (Bompiani), 6 in dialogo (uscì in rivista nel ’64), dibattere di quella che fin da allora era sentita come la questione centrale del lavoro culturale, ossia il rapporto col mercato, nella sua ineluttabilità quasi biologica che è la forma del consumo, e dirci ancora di una possibilità, data dalla letteratura, di forzare quel diaframma che c’incolla al ciclo di «utilità-produttività» e «rapido consumo», ma ciò solo instaurando antirituali modi di consumo… (e quanto ancora potevano apparire quei tempi, che adesso ci abitano, quando – notava Guido Guglielmi – l’artista non solo finirà per assimilarsi alla produzione, irreversibilmente, ma «il consumo assume un primato rispetto alla produzione» artistica: «il produttore [sarà] il consumatore»…) Ma soprattutto, li sentiamo enunciare in conclusione: «il primo gesto dell’artista è quello di considerare l’universo come una grammatica arbitraria». – Consapevolezza, storica e metafisica a un tempo, che l’artista potrà opporre, alla coercitiva assurdità dei riti che strutturano l’agire sociale (e linguistico – e poi anche, quelli della società letteraria…), la gratuità estraniante di una propria, bataillana ancora, «volontà di sperpero»…

Sarà forse questa costante così intrinsecamente ‘anarchica’, la principale indiziata circa quell’aura di sconcerto e ‘terrorismo’ culturale, che a cinquant’anni di distanza, non smette di ammantare il gruppo – fantasma che sia, o fenice, – facendone tuttora una ‘eccezione’ così pericolosa? «Avanguardia» scrive Cage, cui Sanguineti puntualmente fa eco, «è sinonimo di invenzione, scoperta e cambiamento: e queste sono qualità essenziali che saranno sempre là a irritare la gente»…

Mezzo secolo di alibi e luoghi comuni e sbalorditivi e di livori e ire e altre imposture, su di un fenomeno complesso abbastanza da sfuggire da ogni lato a se stesso (in tutta la sua complessità spiazzante, la disancorante forma delle sue interrogazioni), moltiplicando ogni lato di se stesso a configurare la moltitudine del non-sé, basterà, questa decina di lustri, a seppellire l’unico momento in cui un’idea dinamica e impietosa di letteratura si sia fatta strada tra il tossico dell’industria culturale realizzatasi progressivamente come comunicazione al potere e dittatura definitiva dello Spettacolo? Lasciamo, la muffa lunga del Canone, a diffondere la teoria dei suoi silenzi, galleria d’ombre staccate dal muro a gravare sui propri stessi posteri: antro di Melissa, rovesciato, infilarsi di nicchie da una cripta di cappuccini troppo impegnata a salvarsi dai crolli, per poter provare a muovere le labbra; dal fuoco del Diluvio, riaccendiamo invece i contatti, in ogni loro gratuità, in ogni prossimità bruciante, attraverso il linguaggio stesso pratichiamo l’impossibile che resta, troviamo ancora la forma sperperante inconcludibile d’un nostro sperimentare l’esperienza: che è, immagino, tutto quel che davvero ci riguarda.