Esperienza del 63/pt.2 – Agire. Una forma di contatto/Dal vuoto del poema
di Tommaso Ottonieri

2. Agire. Una forma di contatto

 

La poesia (o insomma l’arte, nella sua pronunzia elementare e più autentica – nella sua consistenza di elemento puro, irriducibile scoria – intraducibile in altro), «la poesia, non è una forma di conoscenza, ma una forma di contatto». – Forse perché,  la ‘conoscenza’ dell’arte, non è che questo urtare e premere sulle superfici e sui corpi – che l’idea e il sogno del riplasmarli (corpi, superfici) a fondo, nel profondo – deporsi nei loro strati liminali; mutarne il codice, interfacciata ad essi. – Se la ‘poesia’ è «detta per agire», a quale livello può verificarsi (può inverarsi, anche) quest’azione, se non in un’espansione tattile, oggettivante, della coscienza, nella sua capacità di svelarsi forme di realtà fino a quel momento impercepite o opache? – Il contatto, è quello che accende i contorni delle cose e dei sensi: ‘agire’ primario, elettricità del muto e più intimo conoscere.

Il motto che riferisco qui, e che continua a parermi così necessario per qualsiasi tentativo di conoscenza (appunto) e comprensione dell’atto – del fatto – dell’arte, è di Alfredo Giuliani, apparso più di una vita fa, 1962, su «il verri»; lo ritrovo scansionando come se fosse ancora una volta la prima volta, pagine dalla summa antologica 1976 [ripubblicata ora da Bompiani per i cinquant’anni dal ’63] in cui si rivivono le divergenti note di critica/teoria, tramite cui intellettuali artisti partecipanti alle riunioni del gruppo 63, presentavano e dibattevano, nel farsi, posizioni da farsi: sulla poesia o il romanzo, ma sul senso della letteratura o la letteratura stessa, ecco, come sensorialità e formazione di Senso: sulla teoria stessa (che – lungi dall’essere questo imbuto entro cui costringere corpi e sensi – è anch’essa forma in progress, interrogazione senza limite, itinerario nei lampi della cecità, fluidità elettrica, arte sensoria), e sulla necessaria cruauté di questa pratica del contatto, della liberazione del linguaggio (liberazione dal linguaggio, attraverso il linguaggio), della strenua Menzogna portata contro l’ordine con gli strumenti stessi dell’ordine, che è la letteratura se questa ha un senso («non v’è letteratura senza diserzione, disubbidienza, indifferenza, rifiuto dell’anima»: Manganelli), nella sua natura (Manganelli, ancora) di adunaton – di ‘impossibile’ – e, non meno, di ‘non sapere’, che è del senso della letteratura. – Perché, colui che scrive, non può che operare ‘ad ignotum’ sulla «materia ostile e ostinata»… il linguaggio stesso voglio dire, che gli si presenta come ordine insormontabile, griglia recludente del Potere, che solo la letteratura come zona d’ombra, sfasatura od errore, potrà, eventualmente, mettere in crisi…

(Ma per questo ovviamente cfr. quanto riassumerà Roland Barthes nella fatidica Leçon con cui il 7 gennaio 1977 avrebbe inaugurato un suo corso al Collège de France…)

«Impossibile», dunque, «non sapere»… Se tra le riflessioni risale il nome di Bataille accanto a quello di Artaud, ciò è a designare forse quel punto critico di (auto)superamento delle avanguardie, posto dalle sue coscienze più inquiete ed ereticali, capaci di agire sopra gli stessi «postulati di tipo anarchico», su cui esse avanguardie sono incardinate, per condurli «a un grado di storica coscienza eversiva» (Sanguineti); forando, in questo, lo stesso guscio di «formalismo» in fondo «museale» (se non provato appunto sulla vita), che costituiva (nell’ottica sanguinetiana) l’aporia più dolorosa della dialettica dell’avanguardia. Ed è Giuliani, infatti, in quel frammento del conoscere-contatto, a citare il Bataille dell’Impossibile, quando affermava: «La poesia che non si eleva al non-senso della poesia non è che il vuoto della poesia, la ‘bella poesia’»… Non è che una letteratura insomma che non smette di consegnarsi al suo despota (la lingua come codice/potere): che non fa nulla per produrre, al proprio interno, il vuoto che lo sovverta.

 

 

3. Dal vuoto del poema

 

«Come se ogni sillaba contestasse il poema», allora; e il verso con cui Corrado Costa andava a chiudere un suo memorabile poemetto del ’64, sembra quasi deliberato a incastrarsi entro il titolo esemplare– ad esso antecedente – di Elio Pagliarani: Poème antipoème. L’uno (titolo) e l’altro (verso) degni, comunque, di condensare in sé una parte importante del senso della vicenda neoavanguardista; non è un caso che nell’introdurre l’ultima antologia dei testi del gruppo [anch’essa ripubblicata da Bompiani per il cinquantennale], Balestrini e Giuliani si riferiscano all’esigenza, che fu comune a tutti, di «usare» la lingua «quanto possibile contro se stessa»: e che dunque l’Antipoème sia posto ora, frontalmente, ad aprire questa (per ora definitiva) risistemazione antologica (mentre I novissimi del ’61 erano aperti, sempre con Elio, con un titolo quasi ‘gemello’ e non meno programmatico, Narcissus Pseudonarcissus: replicato poi ancora da Costa, iperletterariamente – anti, letterariamente – in uno esemplare Pseudobaudelaire).

Era l’esigenza, ossia, di non smettere di porre in questione, «contestare», quelle «continuità» di cui è portatrice la lingua di convenzione, in quanto garante occulta (inerte, amorfa, e non meno partecipe) del controllo, ma ancor più (come riassunto in via definitiva dal Barthes della Leçon) come potere in sé, come sistema di controllo: «la società sintattica del dominio itterico» (qui, Massimo Ferretti, autore del Gazzarra), quel comprimente binomio dell’Ordine e del Discorso (dell’ordine del Discorso; del discorso dell’Ordine…) che ha preteso d’incistarsi nel nostro codice biologico, sua stessa condizione. – Ma, poi, appunto, «le parole usate per servire a qualcosa si vendicano», avrebbe detto Manganelli. – Nella società della comunicazione globale (quale andava a definirsi, nelle forme della comunicazione spettacolare, giusto da quegli anni), le parole andranno certo depotenziate, innanzitutto, aggirate, scavate, usate contro se stesse, per poterle agire («agire esteticamente», è per Sanguineti la possibilità che ci è data dall’avanguardia…); non vi è alcun luogo, nemmeno il Poema, in cui la lingua non continui a stringere la griglia della sua sovranità: è per questo che compito di ciascuna sillaba, di ciascuna minima porzione portatrice di significazione e (necessariamente) d’insignificanza, sarà di decostruire e negare il monumento stesso (il Poema) che per essa si erige. E questo, proprio, per evitare la sfinge della «bella poesia» ossia del «vuoto della poesia» (dellappagarsi in una forma, quando la questione è invece di porre un’incertezza di forme contro ciò che è Forma prefigurante: di sentire semmai la letteratura in sé come – deleuziana – lingua minore…)

A meno di non valorizzare invece, della poesia, il medesimo vuoto, inteso come germinatività di un grado zero: come farà ad esempio (nel ’64) Antonio Porta, indicando la necessità di abbracciare gli «imprevedibili sviluppi di una realtà in movimento, fluida, aperta a combinazioni inattese, liberando lo zero da cui è lecito attendersi tutte le soluzioni», per «lasciare aperta la via […] dell’impensabile assoluto»…

Nell’apertura di questo spazio, altro e impensabile, il ricorso all’artificiale, o sia al posticcio (la costanza dello pseudo-), assume una sua eticità imprevista. Perché la vocazione al «travestitismo» (sanguinetianamente, di testi che si costituiscono – si con/testano – sulla base di altri testi), alla letteratura come finzione e come «menzogna», o forse, «invenzione della realtà» (Manganelli), o ancora, come plateale frapposizione di filtri fra sé e il reale in quanto strategia di una messa a nudo, «svelamento», del reale stesso (Guglielmi) – semmai nella (sovversiva?) attesa di «trasferirsi nel suo cuore» – sono altrettante forme di quella ambizione, nomadica e polimorfa (queste le parole dei neointroduttori), ad una «confusione» che fosse anarchico-rigenerante («in principio, naturalmente, tutto era molto confuso», nella Traumdeutung per scena): e resta inteso (Sanguineti ancora) che «il ritorno al disordine è la via maestra del ritorno al tragico».