Fuga senza fine /2
di Tommaso Ottonieri

2.

Il sentire delle notti verdeghiaccio quando la vena allarga, il risbocco del sangue. Il foro scavato dallo scuro di luna; il risucchio a goccia a goccia allo scroscio dei canali, prima di aver versato il disgorgante.

Gravitare su quel vortice di residui minutissimi. Quando, il nervo preme dal fondo, il battere del tempo si assottiglia e geme; quando la vena è spasmo. Il senso delle cose che allagano, il tuffo d’acciaio dei cunei nel petrolio, l’aria spostata da un volo di civetta, sotto un faro il correre di asfalti. Lo scoccare di frecce, una tempesta di scie, messaggio morse da spegnere sui cigli, il seme sparso sulla strada. Quando spinge un bisogno senza oggetto. Fiotto su fiotto, senza che finisca.

Estirpare fili d’erba, i capelli scivolati nei tubi, fibre di circuiti interrotti, nello strapparsi dei cavi elettrici sulla stretta della gola, o dei segnali telefonici, dei fili: quel che spunta da ogni crepa sotto i muri dallo sfessurarsi dei mattoni, filamenti da strappare uno ad uno quando i cumuli s’ingrossano e fermentano per non più smaltirsi. Sono barricate molli, i sacchi gettati nelle strade, come una guerra civile dove il rumore è scomparso e riverso al suolo tutto sta a giacere mai più rimovibile, rettili che strisciano dalla base dei cumuli dal grasso che s’eietta dalle bocche dei residui: un lamento risale, spinto dalle orbite, dai circuiti sanguigni, si spande da una cava d’infinito purgatorio, come una bocca deforme strisciata sull’asfalto. E l’asfalto si apre.

E la stanza, dall’asfalto, si apre. Come dal soffio catacombale, spirato da cunicoli, senza fine sospinto nel rossospasmo della stanza, fessura schiusa in mutezza di respiro, un ansimo breve. Da una serra di limoni che si apre dalla terra, nel rintocco ringoiato del senso dei ciliegi. Penetra i contorni, per la spinta di una canapa sottile, solca a giri la pietra venata, come un macigno abbandonato sul divano, che da una piega di raso schiude il suo sesso.

Ora la luce è più bassa sulla stanza. Un giro di sfera rossosangue. Risalgono centimetri di curvature senza fine, le mani; raggiungono il calore di un confine aperto, accolgono lo spezzarsi del respiro. In brividi si scuotono al tremare delle labbra. Si fermano sui petali del raso, tirato in pieghe sul liscio della pelle, quando la stanza cigola già, dall’assottigliarsi delle pareti di carne, un sudore rappreso di interrotte fecondazioni.

È lì, su quella soglia, che ti sei arrestato.

I cumuli minuscoli di cenere, franano dal centro del piattino. Così nel consumarsi del fumo senza bocche, mentre il respiro non smette di battere, rivieni a tutta la sfrenatezza che è scivolata via e che lì resta solo nel nervo del respiro, alla spirale di futuri smarritisi nel collassare degli anni. A tutto quello che è perso, alle promesse inadempibili, che v’eravate negati. E le labbra si schiudono per un ultimo appello, provano il brivido dell’amore sfiorito, quando alzi lo sguardo, per sciogliere. Quando riprendi a parlare senza dire.