Alcune domande e alcune risposte
(Piergianni Curti e Tommaso Ottonieri)
da Atti Impuri n°1

Condividi o rifiuti l’idea di uno scrittore come testimone del proprio tempo, anche dal punto di vista linguistico?

Curti: Essere testimone del proprio tempo significa che la letteratura scade, e il testimone resta solo come reperto archeologico. O forse le cose non stanno così: si scrive sempre di universali, e il testimone del proprio tempo ingrandisce dei particolari, con la lente del suo tempo. Un po’ come dire: si vede solo la punta dell’iceberg, che si scioglie e si ricostituisce cambiando sempre forma, ma sotto c’è sempre l’iceberg.

Ottonieri: Non v’è testimonianza che non passi attraverso la parola, certo; eppure credo che per chi si spinga a esprimersi per forza di scrittura, il senso testimoniale non possa che essere innanzitutto linguistico. E che la lingua, dove c’è un profondo di scrittura, parli in più modi contemporaneamente, e sia insomma la costruzione di un sistema o sia mondo (parallelo e intrecciato e a contatto quanto si vuole con quel che s’intende come “realtà”, ma sempre radicalmente Altro), e dunque appunto, la fondazione di un tempo. Spazio oggettivo e musicale insieme; capace di rivelarsi, per via di trasparenza, all’informe della temporalità in atto nel sistema “mondo-reale”. In nessun caso uno spazio autentico dell’arte può essere qualcosa come una tribuna; ogni testo, se è, allarga trame sottili e aperte, non è mai dichiarativo, ma invece tesse ambienti da abitare criticamente. Eppure, è forse per questo che è destinato alla sparizione, nelle età in cui la lingua si diffonde come puro macchinismo di propaganda; se una pubblicità non si combatte se non con altra pubblicità, non è così facilmente stigmatizzabile la mutazione antropologica dell’intellettuale (e dell’artista) in pubblicitario o magari in superstar mediatica. (E ancor meno, è ovvio, quella in reporter: che è un grado zero della testimonialità).

Che rapporto c’è tra il reale e l’immaginario, tra la storia e la fantasia nel tuo lavoro?

Curti: Se ti compri un’automobile da nessuna parte c’è scritto che cosa ne farai. Ci puoi fare un mucchio di cose, compresa quella di andarti a schiantare. Non c’è scritto nella sua meccanica e nella sua termodinamica. Quello che ci farai fa parte di immaginazione, fantasia, necessità, accidenti, scelte più o meno ragionevoli. E’ la stessa cosa nella scrittura: il mondo è lì, con la sua bella Fisica, la sua bella Storia, eccetera. Scrivere vuol dire farlo viaggiare in mondi possibili, in modellini immaginari e tra costruzioni fantastiche, per ragioni nobili sorrette da ragioni nobili e viceversa, non si sa. Il mondo reale nessuno lo conosce tutto. Non c’è altro da fare, i fisici lo sanno benissimo.

Ottonieri: Direi generalmente che, nell’ordine della scrittura (o tout court dell’arte), l’oggetto (nel suo stesso caos) viene metabolizzato dal pensiero caotizzante dell’immaginario, per essere restituito a un diverso ordine di evidenza, materiato d’una testura altra. Immaginario che strania e insieme rende propria la sostanza (sempre sfuggente e a se stessa estranea) o almeno una sostanza, magari un margine, di ciò che è mondo, per elevarlo a una intensità realizzante di visione: la quale naturalmente non può rigettare il caos, ma lo traduce nei termini della concreta sensorialità di cui ogni specifica arte dispone, e dunque nel sistema del suo senso. (Rivelandone, di conseguenza, un senso). E questo è vero, spero, in qualche modo, anche per il mio lavoro; in cui il sistema d’arrivo può magari risultare più sensorio e materico (e in questo forse più reale) che nella media.

Molti scrittori coltivano una visione pacifista del mondo. Ma l’atto stesso di scrivere è poi così pacifico o innocuo?

Curti: Uno scrittore ha: una posizione in trincea da tenere, un punto di vista forte da cui sparare, una poetica da difendere, dei distinguo che fanno da reticolato, degli schieramenti che dividono i campi, innumerevoli bersagli polemici eccetera. Si potrebbe aggiungere, a questo manuale militare, un manuale di logica: gli esseri umani sono sistemi assiomatici. Gli assiomi sono le loro credenze, la logica con cui dimostrano i loro teoremi è un miscuglio di logiche, guidate dagli obiettivi da raggiungere. Ora, i sistemi assiomatici sono inconfrontabili tra loro, il che vuol dire che gi uomini non potrebbero che farsi la guerra. Se non fosse che in genere non si confrontano per tutta l’estensione degli assiomi, ma solo per quella che li rassicura e li unisce: religione, ecc. Per definizione, questo agli scrittori non può accadere: è proprio nel loro sistema di assiomi che rovistano incessantemente, tirandoli su dal fango e constatando così che la teoria è vera.

Ottonieri: Scrivere se è vero è infligger(si) ferite. Schiudere, sui diaframmi, fessure da cui (in cui) scrutare, condotti da cui scivolare per emergere; e forse l’arte, o il sentimento estetico, è in sé nulla di meno che rivelazione della matrice traumatica del godimento. Rivelare traumi al godimento, è questa la natura subliminale del sublime (e del suo rovescio).

La parola ha, e ha sempre avuto, un valore fondante anche nella sfera del sacro. Ne è rimasta traccia nel tuo lavoro o nel tuo approccio alla scrittura?

Curti: Le parole sono usate una prima volta, una seconda volta sono già vicino alla data di scadenza, una terza volta puzzano. Una quarta volta rinascono, e così via. Non ci puoi fare quello che vuoi, ma non puoi fare a meno di ricominciare ogni giorno a rinominare le cose del mondo, e questo è una specie di infinito tascabile che non fa dormire i poeti. Forse però è in contraddizione con le aspettative degli esseri umani in generale che, magari a modo loro a ragione, si mimetizzano in modo rassicurante nel confortevole mondo dove la parola è congelata in etichette e slogan e non vogliono più che mentre fanno di tutto per allontanare il calice, cercando di abbandonarlo sulle autostrade, i poeti e gli scrittori regolarmente glielo riportino a casa, pretendendo anche la mancia.

Ottonieri: Sì, è che tutto ciò che è arte è in fondo la macchina celibe del sacro, l’apparecchiatura del culto di cui possiamo disporre (punto di contatto dell’estasi del riso del dolore): e a ben guardarlo quel che scrivo sempre s’ibrida infatti di occulte dizioni formulaiche (ma senza chiavi a predefinirle), d’un caotico ordine rituale senza una religione che possa contenerlo. – Che è poi quello, detto per inciso, che sento come il proprio del discorso dell’arte. – Ma credo di aver già detto di questo, in parte, nelle risposte che precedono.