Roberto San Geroteo, Notturni e altri versi

Roberto San Geroteo è nato in Bretagna nel 1951 e ha origini spagnole. Scrive e traduce in francese e spagnolo e ha pubblicato diverse raccolte poetiche da cui viene presentata qui una breve selezione. Ha inoltre tradotto poeti da entrambi i versanti culturali, tra i quali Eugène Guillevic, Bernard Noël, e Henri Meschonnic. Ha diretto negli anni 90 la rivista «Noire et Blanche». Il suo ultimo libro, di prossima ristampa, è La machine à se souvenir.
Una sottile vena surrealista si insinua nei suoi componimenti, solitamente brevi, aforistici, nati nel migliore dei casi la notte, come per comporre un catalogo delle ore notturne.

[Traduzione e cura di Fabrizio Bajec]

 

da Notturni (2011)

 

In piedi, seduto, in ginocchio, l’elemosina. Uno spicciolo, un po’ di sesso, anche solo una dose di salvezza. Dal corso al viale ne accadono di belle e niente cresce. L’acqua bianca del tombino, l’umido della fogna. C’è sempre un po’ di vero nella stagione che va via. Raramente nelle parole che la spillano al tremore della voce.

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Come riaddormentarsi quando uno ha già dormito? Come privarsi quando uno ha già molto peccato? Come morire quando si ha già una faccia da morto? Il cranio dolente, gli occhi straziati davanti alle nuvole e al pus famigliare, le mandibole strette sul ricordo del loro bottino, la lingua insabbiata nella menzogna, le braccia e le gambe saldate tra loro dai polsi, il corpo che si è in qualche modo legato da solo, sull’argine, il giorno, dopo la notte più lunga. Hanno suonato? Clacsonato? Qualcuno chiama? È possibile? Arrivo.  Da lontano, molto lontano, così lontano. Sono tuo.

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La livida Senna mi attraversa gli occhi. Ma numerosi esseri (in)umani mi guastano la festa. Chi osa interrompermi nel bel mezzo di un sogno tra conti e sconti? Caro amico, i meandri della tua voce compassionevole sanno di paura e vigliaccheria indispensabili alla sopravvivenza. Chi dunque mi richiama alla morte dal fondo di una vasca di sangue e merda? Guardo sotto la suola dei miei stivali consumati e bucati. E niente, neanche umidi. Ho forse camminato tutto questo tempo a vuoto? Ma riprendiamo la nostra lettura.

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Schiena bruna e nuda voltata verso la pelle bianca dei muri della notte. Figurazione umana tanto attesa, tanto desiderata, così sconvolgente.
Vetro, specchio, schermo quasi perfetto fra due solitudini dalle labbra spaccate morse dal freddo e dall’amore.
Non vi è più niente da bere tranne la saliva avida di bocche affamate.
Bisogna continuare a camminare coi piedi su vecchi stracci grigi.
Accompagnare il ruscello, la cascata, gatti senza domicilio, ombre, un preludio.
L’orecchio teso in accordo col cuore del silenzio, la semplicità della gioia, la fedeltà della tristezza, la terra promessa della morte.

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I primi lillà già un po’ avvizziti sul tavolo della cucina poi  nell’acqua della camera dove viene a bere una donna a torso nudo, i piedi nudi al soffitto. Dove è finito il resto del corpo? È mangiato dalle tenebre, tranciato in silenzio, in pezzi da macelleria. Sento il suo respiro e il suo odore di radice sott’olio al buio, inchiodato al pavimento e nell’aria fredda tra riflessi e ombre.

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Avete senza dubbio già aperto una porta per sbaglio, per esempio quella di un hotel che credevate essere il vostro. Quale sorpresa allora nel trovarvi davanti a due corpi stesi su un letto. L’ombra di un istante è necessaria a capire che non siene nessuno di questi due esseri addormentati. Soprattutto non immaginatevi che una di queste creature potrebbe svegliarsi di fronte a voi, piantato ai piedi del letto come un cipresso di fianco a un cimitero. Una volta richiusa la porta alla luce della lampadina notturna, una volta per tutte in questo corridoio senza fine, è già la solitudine che toglie la mano dalla maniglia e vi conduce meccanicanicamente fino alla porta della camera giusta dove vi sentirete strani a ritrovarvi.

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Prendimi, dice la voce; scopami, dice lei. Si, ma come iniziare? E se non si facesse? risponde l’eco. Un paio d’occhi sarebbero benvenuti sul volto dell’abbonata assente, occhi in linea con ciò che la lingua della morta-vivente sa fare ma non sa dire almeno una volta per tutte. Allora la notte continua: due gatti faccia a faccia in una barca confrontano la pesca sulle loro rispettive canne; un altro è linciato a colpi di pomodoro su un’altalena; un vecchio gufo si addormenta su un grosso libro; e sempre la stessa mela destinata al sidro ma lasciata sulla credenza.

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Bisogna saper essere sporchi dalla testa ai piedi per sentire davvero il mondo, sentire la marea per conoscere l’amore, buttare profumi e soldi dalla finestra, appiccare il fuoco alle farfalle e ai fiori, ai frutti e ai rami e alle foglie e ai libri per provare la crudeltà umana, sorridere come un bambino che ha distrutto ogni cosa intorno a sé, contare i morti poi guardare con compassione e curiosità un filo d’erba tra due ciottoli, una bottiglia vuota visitata dalla vaga luce del mondo.

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Si nasce, e già non c’è più nessuno. Da un lato l’ombra di un uomo senza testa; dall’altro, l’esilio e il lutto nella flebo, e dopo nel biberon. Non si ha fame della propria infanzia malgrado il vino nero e dolce delle origini. Le ossa reggono appena, si sta in piedi come un fresco castello di carte sotto il vento e la pioggia. Poi alla prima ricreazione, bisogna già vincere; e all’uscita imparare ancora a battersi. Per fortuna, il silenzio, una madre cuce e aspetta, la fratellanza dei soldatini di piombo. Ma la casa è piena. Dove andare? Alla finestra dell’acquario si sente l’aria perlare sulla fronte fino agli occhi, lavare lo sguardo per molto tempo. Ancora un po’. Sto sognando. L’alba gialla scorre lungo il viale e dentro gli occhi, la notte fa i suoi preparativi e addii, tra un po’ getterà un’ultima stella nella solitudine di ciascuno.

 

da Easy peaces (2003)

Ode al fuoco

I piedi bruciati dalla canapa delle espadrilles estive.
Foglie morte davanti alla porta.
Percorrere la casa, stendere vecchi panni
rimettere acqua nei vasi.
Cambiare sedia ad ogni replica
della conversazione silenziosa
tra voi e colui che non avendo più molte
occasioni d’essere se stesso, tace
per non ascoltarvi.