Luigi Socci, Freddo da palco
di Fabrizio Bajec

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Dalla dinamica collana «i miosotis» delle Edizioni d’if esce la seconda silloge di Luigi Socci, cinque anni dopo l’esordio dell’Ottavo Quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos). Ancora una breve raccolta: sembra tutto quello che l’editoria possa permettere oggi a un poeta non più esordiente. Questo il formato; più dura la selezione dei testi da includere. Una parte rientrava già nel Quaderno del 2004. La prefazione era a cura di Aldo Nove. E non è un caso che l’autore di Woobinda abbia voluto introdurre un poeta di stampo palazzeschiano, come qualcuno ha già detto altrove. Un poeta che usa l’ironia come arma da taglio e un discreto cinismo nei riguardi di una società sempre più spettacolarizzante. Quest’Italietta borghese, che Socci si diverte a dipingere con tratti minimali, e armato di rime sprezzanti, buttate qua e là, ci sembra di riconoscerla bene. La rima non è infatti mai il rispettoso omaggio a una tradizione lirica, ma funziona a mo’ di battuta, anche forzandola a volte: «esistiti cartografi davvero» richiama «PICCINI, famoso condottiero», p. 8.
Per Socci si direbbe che nulla è serio, tutto va desacralizzato, gli ori del barocco romano fatti cadere, la santità di Teresa d’Avila sputtanata, la sacralità dell’arte nelle Chiese capitoline viene svilita dalle visite turistiche che illuminano le opere a suon di gettoni.

Tutta la realtà offerta al poeta si riduce a quella di cortili rionali, bocciofile, e luoghi abitabili che  tocca’’ mettere in versi, nella maniera meno lirica possibile, se il poeta non è più che un mestierante che fa bene il suo lavoro perché ha imparato, è stato promosso dalle istituzioni (vedi p. 9). Per due volte infatti Socci fa iniziare la strofa con la citazione «Tocca anche a noi», rovesciando così la lirica montaliana, quasi che non ci fosse scelta sul dare o meno il proprio contributo.
Il tema portante della plaquette è il teatro. La vita come spettacolo, a cui si assiste senza crederci. Abbondano in queste poesie vocaboli come: sipario, teatro, attrice, palco, prove, biglietto.

E il freddo da palco è quello che arriva da sotto il tendone rosso, direttamente sul pubblico. Anche questo è facilmente identificabile come grottesca marmaglia. Perciò Socci fa pensare a quel pittore naïf, tale Franz Borghese, caricaturista, neo-espressionista che gioca coi suoi goffi personaggi, vestiti di tutto punto, con cilindro, baffi posticci, grandi nasi, e bassi di statura come le case della prima poesia, vagamente fasciste. È una visione addomesticata della società, surreale solo perché guardata dallo spioncino, e quindi dai dettagli abnormi, quasi pubblicitari. Sono diversi i riferimenti a piccoli, comici incidenti del quotidiano: cellulari che vibrano al momento sbagliato, gente che rivuole i soldi del biglietto, intrusioni di un lessico televisivo, come puntata’’ riferito al teatro (p. 18).
Non c’è mai nessun dramma. L’ironia sottile entra perfino nelle poesie d’amore, con un’attrice per protagonista, “culturista dell’occhio’’, e nella tragedia di un attentato terroristico che accade in un teatro russo.
In un medaglione dedicato a Socci, nell’antologia Samiszdat (giovani poeti d’oggi, Castelvecchi, 2006), Giorgio Manacorda faceva notare che proprio in questa poesia dal titolo eloquente Ultima Prima al «Na Dubrovka» (pp. 26-28) il teatro finisce là dove inizia la realtà del crimine. Anche a parer nostro questo risulta il miglior componimento della plaquette, perché dal bozzetto umoristico e scanzonato, dalla camera iperbarica in cui sono tenuti i sentimenti, esce una promessa solenne e ieratica – è ancora un personaggio a farla, non il poeta: «Mi credo e mi capisco / Dico l’ultima e poi mi finisco».
Proprio quando il teatro, quello vero, entra nella realtà con la forza di un atto distruttivo (l’attrice si fa saltare in aria con un cinturone di dinamite), allora la rima non fa più ridere, ma lascia senza parole. L’attore muore sul palco e con lui inevitabilmente muore il pubblico. Lo spettacolo finisce quando finisce la vita. Proprio quando cade la maschera, per Socci è tempo di uccidere.
Ma prima di arrivare qui si deve passare per un mondo di carta pesta, come uscito dai cartoni animati, con tritoni accasciati’’, «Sant’Andrea propulso da una nuvola a reazione», «angeli e santi di serie z» bocche che si sguaiano a grande richiesta, e api papali’’. Insomma, dietro la risata si nasconde la tragedia della verità, che il poeta sente e ricopre di annunci, elenchi e descrizioni malinconiche, perché tutto sembra terribilmente normale. E se tutti recitano, vuol dire che in fondo qualcosa non va. E il poeta è un presentatore di fronte a un pubblico di morti impellicciati, e tenta di rianimarli con giochi di parole, inversioni, e rime grasse. Socci è un prestidigiatore (performer) che decide all’ultimo di far scoppiare una bomba, se dalla sua valigia nessuno strumento ha funzionato come doveva. In questo consiste il rischio, il pericolo e il fascino di questa moderna poesia.

Luigi Socci, Freddo da palco, edizioni d’if, 2009, pp. 29, 7 euro