Su Giorgio Manacorda, Viaggio al centro della terra, di Fabrizio Bajec

 

viaggio

Il libro non si apre benissimo. La prima sezione è una lunga dedica alla compagna del poeta, prematuramente scomparsa, ma il dolore è sovrastante e nel tentativo di essere il più onestamente nudo di fronte al proprio lettore, Manacorda fa il contrario di quanto si prefigge nella successiva sezione elegiaca (e anche nel suo difficile e intenso libro teorico, crocianamente intitolato La poesia, Castelvecchi, 2016), ossia “non diventa la sua poesia”, non si annulla nel grande Io o nel Sé che regge il mondo e rende la lirica così necessaria all’uomo. Quel dolore è ancora privato, e bisognerà attendere le prime bellissime elegie della seconda parte, e soprattutto quel congedo della penultima sezione del libro, per trovarci d’accordo con quanto detto in quarta di copertina.
Perché è vero che «Giorgio Manacorda è semplicemente diventato – nel corso di questi ultimi quindici anni – uno dei maggiori poeti italiani viventi», ma ciò è accaduto superando ogni tipo di retorica storicamente inquadrata e a furia di un rigoroso e instancabile lavoro di bottega, di nobile artigianato. In silenzio, lontano dai riflettori negati a lui, reo di aver esercitato una critica militante senza concessioni, inimicandosi buona parte della società letteraria italiana, Manacorda si è solo preoccupato di scrivere, prima in versi, poi romanzi, e sempre meno critica, ritrovando così un’innocenza fondamentale, ed è rinato come poeta a 60 anni. Per far questo, non sono mancati gli autodafé alla sua generazione, che avrebbe fallito con la poesia (e con la politica) per paura di ricostruire. Noi salveremo almeno Patrizia Cavalli, Dario Bellezza, Renzo Paris, e Carlo Bordini. È quanto di più ci interessa in area romana.
Eppure, nella migliore sezione di questo volume sussistono tracce (involontario riferimento a un titolo manacordiano) o stilemi del poeta lacaniano degli anni ’70. Ma rinnovati. Forse perché fin da allora era alla ricerca di quel magma sotterraneo che darà poi la direzione alla sua poesia. “Diario 14” s’intitola questa sezione, e non a caso fa pensare a un titolo montaliano, se è vero che qui, dalle elegie in poi, accade un miracolo simile a quello degli Ossi di seppia. Manacorda può serenamente nominare, come per la prima volta nel suo percorso, le cose che restano e che danno senso. Allora sono più spesso relitti, e tutta una serie di immagini che fanno risorgere il modernismo eliotiano, quella Terra desolata da cui ripartire e da cui infatti coraggiosamente Manacorda si muove per dirci che la poesia non ha tempo, è atemporale finché è lirica. E dunque noi avremo a che fare con una lirica pura, che dialoga con Rilke, sia pur ripetendosi un po’, ridondando e astraendosi nella sezione elegiaca, dopo i primi sei o sette testi. Ma candidamente, la poesia si dà senza trucchi né gerghi poetici. Manacorda si avvale anche dalle sua tarda attività pittorica, che gli serve dei materiali crudi, nomi da allineare in frequenti liste, divisi da virgole, come: gesso, cartone, roccia, pietra, legno. Brodsky si augurava una poesia fatta di soli nomi. Parole come colori. E bisognerebbe rileggere adesso la produzione in versi di Scipione, edito da Einaudi. Con Manacorda i materiali della corrente artistica dell’informale tornano in poesia travalicando gli anni ’50 e inserendosi in una mitologia preistorica e psichica che ha molto a che vedere (forse più di quanto l’autore sia cosciente) con la psicanalisi lacaniana, ma senza giochi linguistici. Questo mondo sommerso, da cui tutto deve ripartire quando la nostra terra sarà distrutta, ci ricorda le stratificazioni dell’inconscio. Su questi piani si aggirano mostri e draghi. Forse questa zona è l’unico patrimonio che importa e che guida gli uomini, e gli artisti in prima linea.
Chi ama la poesia lirica (mettendo dunque da parte quella narrativa, aneddotica, iper-realista, o civile), chi vorrebbe cimentarsi con essa, dovrebbe leggere questa raccolta di versi.
Con una precisazione: non è quando Manacorda si trova nella posizione più elevata (con Rilke) che il vertice viene toccato, ma quando dimentica la serialità e il tema (la desolazione delle ultime cose) e la poesia diventa d’occasione, senza programmi, il luogo delle improvvise stoccate di un “soldato segreto”. Come nel “Diario 14” o nelle descrizioni delle “amiche e amanti”. Allora chi scrive si dimentica di ciò che vuole, di quello che deve fare. L’azione è automatica, irriflessa.
Diverso il funzionamento dei due poemetti teatrali che chiudono il libro (meglio il secondo amletico omaggio a Müller rispetto alla Medea pasoliniana o testoriana). Però il viaggio finisce degnamente, di nuovo nel ventre, al centro delle forze in conflitto, ancor prima della nascita, come ci insegna Melanie Klein.
Noi però vorremmo chiudere con una delle liriche più distese:

 

È solo un segno nero, il mare aspetta
che la nube apra sul cielo il proprio sole

 

e tutto accechi. L’ape ronza
sul vetro e i gabbiani sul cornicione

 

si fanno la guerra per un posto al sole
mentre le rondini tagliano il paesaggio

 

affilate parche dell’estate. La sua rabbia
è quando non compare, quando

 

esce dai monti e non lo vede, mentre
fuochi sottomarini danno al sole altri soli

 

e tutta quella luce muore il giorno
all’atto della nascita. La sera

 

le navi fioriscono e tornano in porto,
tornano nell’ombra i loro voli, le loro

 

sconfinate notturne praterie sommerse.

 

Giorgio Manacorda, Viaggio al centro della terra, elliot, 2014, Euro 22,00.