#11 Amsterdam kissing
di F.R.

Come siamo arrivati a questo punto che il suo gatto mi fa le fusa ed io la sto disegnando la sto scrivendo e più tardi la penserò.
Come siamo arrivati a questo punto che riconosco l’odore dell’aria che le sta attorno e vivi come un incidente il riverbero della sua presenza.
Ricordo soltanto canali di fumo al di qua e al di là del ponte.
Ricordo soltanto il lasciarmi andare ad un prezzo ragionevole.
Ricordo soltanto il colore della sera e milioni di parole.
Mi immagino ciò che mi resta.

Orizzontale sul telo dietro un universo trecento pagine di Céline sotto la testa e la voce di Milla Jovovich nella testa che mi sussurra a squarciagola Satellite of love di Lou Reed, ed è tutto nero occhi chiusi tutto azzurro non chiusi. Attraversato dal vento che si porta via gli odori e l’abbronzatura predeterminata dentro le creme dentro le tabaccherie. Mi lascio addosso la voglia che ho di lei e che non evapora come sudore, come fatica che fatico a sostenere.

2 mesi fa attraversavo i corridoi a vetro, grigi del tempo che c’era fuori. E lo si leggeva negli sguardi metereopatici davanti alle aule del Dams e nei maglioni rigidi e distaccati. Avevo appena evitato di superare un esame e le nuvole coprivano a tratti l’estate. Ma due occhi a colori dentro uno sguardo da pioggia mi avrebbero fermato, ma non lo sapevo. Avrei dovuto consegnare una tesina sulla poesia concreta di Balestrini, ma le cose non vanno mai come dovrebbero andare ed io non vado mai dove dovrei andare. Mi sono appoggiato al marmo della panchina come se fosse la cosa più naturale del mondo lasciare che qualcuno ti attraversi in quel modo.

“Eloïse” mi ha detto in mezzo a tutti i suoni meno importanti. In mezzo alla luce. In mezzo agli odori da macchinette e ai piano midi da lunapark. In mezzo al traffico in costruzione, ai pellegrini di periferia, con gesùcristi verdi di plastica e occhi vinti da volti modello dipinti sui tram. In mezzo a due carte telefoniche ed un palazzo imperiale come monadi di Leibniz in un ristorante indiano. In mezzo a chi non gliene frega niente. In mezzo tra lei e me. Come viaggiare senza guardare.

Come viaggiare in galleria, di galleria in galleria, attraversare le buie cose da visitare, ascoltare il walkman, non ascoltare mai. Scappare dalla parte opposta a lei per raggiungerla alle spalle come una canzone da film. Come un film di Wim Wenders che già ha un titolo e una colonna sonora. Summer kisses winter tears dentro tunnels di sorrisi bui.

Perché ci siamo rivisti dopo molte notti e giorni molti, come dopo anni. E io ero solo peggiorato e stavo solo peggio.
La spiavo e spiavo i suoi riflessi sul mare calmo del mio cocktail; eravamo lontani trenta centimetri e lei mi parlava. Soltanto che lei era dio ed io indeciso se pentirmi e scusarmi per ogni bestemmia, per ogni persona convinta a non credere affatto o baciarla subito.

“Non provare a dirmi che ci sei già stata. Tu credi, di esserci già stata. In realtà a Torino esistono decine, centinaia di posti come questo.”
“Sì, ma a me sembra di essere stata proprio qui.”
“È im… possibile!”
“Perché mai?”
“Perché questo posto l’hanno riaperto soltanto qualche giorno fa. È stato sempre utilizzato dagli adepti del gruppo esoterico del tempio oriente per i loro sacrifici umani. Ancora oggi non è quasi più possibile entrare a meno che…”
“A meno che… cosa?”
“A meno che tu ne faccia parte.”
“Ah, ho capito. Adesso farai BUH?”
“Non ti ho spaventata?”
“Oh, sì, moltissimo. Adesso farai BUH?”
“BUH!”

Gioco a yoga nel mio letto sul mio cuscino. Dove ho letto che nei sogni si affoga nelle proprie paure, ma le paure loro, imparano a nuotare. Sbircio verticale il ghigno accattivante di monsieur De Large e la polvere illuminata che danza sulla mia concentrazione come dervisci turneurs. E il tempo scivola via circolare, come le tracce consumate di un vinile.

Eloïse non è più da nessuna parte di me e del mio silenzio. Con il mio ombrello lei è partita senza di me. Qui intanto piove industrial rain for industrial people e tutto sa di panino al tonno con la nutella. Piovono verticali punizioni simili a paure come gocce d’acqua. Piovono manichini alticci e fumati. Piovono e cantano everything is a Bloody Mary for me, when I find myself in time of trouble, a Bloody Mary comes to me.

Alle 2 di questa notte tra sospiri di clorofilla e qualcosa che di diverso ha lei e che, non sono i capelli bagnati, ma qualcosa che non so cos’è. Tra tutte le parole che mi ha detto messe tutte assieme unadietrolaltra, e quelle che avrei voluto sentire, che non si legano, e aspettano una mia decisione. Tra tutte le sue espressioni rubate tra i miei occhi e le mie lenti a contatto. Alle 2 di questa notte Eloïse è l’asintoto del mio manuale di geometria a pagina quarantadue, è qualcosa di diverso, qualcosa che non so cos’è.

La pioggia depositata a terra riflette la notte scura ed è scivolare sulla notte scura, scivolare dolci su di un bugia, scivolare acidi al neon. Scivolare vuoti. Attraversati da luccicanti riproduzioni ottiche come respiri diaframmatici dentro un flauto traverso. Risuonano dentro scale limpide e liquide, scale di geniali dilettanti d’arpa, note stronze e romantiche come Luci poesie, note a folate di pioggia tirata via dal vento. E mi lascio piovere, mi lascio piovere che domani. Mi compero una spada blu di plastica.

Biografia

F.R. è nato lo stesso giorno della figlia di Jovanotti e di suo cugino Vincenzo, ha curato numerosi manuali di entropia inorganica.
Ha scritto patriot egocentrique, L’angolo dello psicanalista, Amsterdam kissing, Che ne sarà dei miei gatti se scoppia la guerra ghostrack.