Ritorno alla macchina del sogno (prima parte)
di Luca Tedesco

Ruota che avvita, che vincola la vita. Ruota che svita, che svincola la vita

Il nostro corpo forma, con le proprie estensioni (autoamputazioni) tecnologiche, delle piccole reti, dei circuiti chiusi che hanno le caratteristiche fondamentali della vita: gli uomini creano macchine e le macchine ridefiniscono gli uomini in un processo di causalità circolare simile a quello che potremmo riscontrare in una cellula. Quando in una rete insistono delle tensioni, possono formarsi nuove reti: cellule di diverso genere in grado di integrarsi con quelle già esistenti ridefinendone le funzioni all’interno di sistemi più complessi. L’estensione del nostro stesso sistema nervoso centrale nella rete elettrica in grado di coordinare queste tecno-cellule in tessuti, organi ed apparati ci riporta – insieme allo sviluppo della nanotecnologia e della biotecnologia – al corpo preamputato. Ma il  corpo (e il mondo che col corpo percepiamo) che il nastro automatico del capitalismo mondiale ci restituisce, è un corpo espropriato (che ci sta addosso come un parassita) e la vita è già montata dentro come “film biologico della carne” (Burroughs).

Lo studio del cinema, allora, (alcuni momenti del suo sviluppo) ci si presenteranno come cartina di tornasole per comprendere il più vasto processo di monopolizzazione della vita e per immaginare – proprio partendo dalla ridefinizione del corpo come apparato tecnologico – delle possibilità di fuga, dei modi per uscire dal film che permettano ad ognuno di vedere le proprie visioni e di partecipare alla costruzione della realtà. D’altra parte, anche il cinema nasce dalla fusione di organico e inorganico e la sua storia si intreccia a quella della ruota (un autoamputazione del piede) che troverà una nuova applicazione nella bobina. La ruota compare già nel precinema e possiamo partire da qui per individuare l’emblema di due possibili sviluppi dell’esperienza della visione e della vita:

Con il fenachistoscopio (costruito da Joseph Antoine Plateau nel 1833) per la prima volta su una ruota immagini separate si fusero in movimento. Il fenachistoscopio è un disco con delle aperture radiali nella parte esterna e una fascia di disegni che ritraggono diverse fasi di un movimento nella parte interna. Stando di fronte ad uno specchio è possibile, guardando attraverso le fessure del disco messo in rotazione, vedere i disegni ricomporsi in un continuum: un’omino che salta una staccionata, un cavallo che corre, un giocoliere che cammina su una palla ecc…  Lo zootropio inventato da William George Horner nel 1834 si basa sullo stesso principio, ma ha una forma differente che permette di ottenere l’effetto del movimento senza bisogno di  uno specchio e che consente la visione simultanea da parte di più persone. Si tratta di un cilindro forato, all’interno del quale è posta la striscia dei disegni che, al momento della rotazione, si animano.

Attraverso queste ruote era diventato possibile riprodurre meccanicamente il movimento della vita. Ma si tratta di una copia che gradualmente – in modo sempre più intenso a partire dall’invenzione della fotografia, della bobina e insomma del cinematografo – aumenta insieme la propria definizione e la propria capacità attrattiva. Sulla possibilità di vendere copie della vita come films –  vita che allora mancava innanzitutto ad operai, migranti, cameriere, prostitute  (sono loro il primo grande pubblico del cinema) – presto si concentreranno gli interessi di grandi monopolizzatori. Il cinema che si produce nell’ingranaggio di tali interessi tenderà ad una sostituzione totale dell’autentico con la necessità biologica del prefilmato.

Se il fenachistoscopio e lo zootropio sono in grado di copiare il movimento della vita e costituiscono quindi il preludio di una storia per cui – col dagherrotipo, la bobina e l’aumento di definizione che polverizza il filtro – la vita stessa verrà cucita intorno al pubblico pagante prima come pellicola e poi (passando alla biotecnologia) come pelle e necessità, indipendentemente dalla realizzazione vitale degli uomini; ci sono altre macchine in grado di aprire la visione a partire da una sottrazione, da una deprivazione di quelle stesse immagini che il fenachistoscopio e lo zootropio tentavano di montare in un continuum. Alla fine dell’ottocento, il giocattolaio Charles E. Benham, osservando dall’alto una trottola che girava, notò la comparsa di colori che non erano presenti nel bianco e nero dell’oggetto statico. Realizzò quindi un disco (diviso in due parti una completamente nera e l’altra bianca con degli archi concentrici neri che la attraversano) in grado di riprodurre il fenomeno. Ogni osservatore – grazie all’intermittenza  spaziotemporale delle due metà del disco che interferiscono con il suo sistema percettivo – vede apparire diverse gradazioni di colore. Il disco di Benham, gemello cieco e visionario del fenachistoscopio, è un antenato della dreamachine.