Ritorno alla macchina del sogno (quarta parte)
di Luca Tedesco

Entrare nel Cinema, Uscire dal Film

Il nome di alcune delle prime case di produzione cinematografica americane (Biograph, Vitagraph) o – nota McLuhan – il modo in cui gli inglesi chiamavano un tempo il cinematografo (bioscope) ci  riportano al legame strutturale che, fin dalle origini, si instaura (c’è) tra cinema e vita. È significativo che la fisiologia,  lo studio della locomozione animale e umana giochino un ruolo fondamentale per la nascita del medium. Per scomporre il movimento in fasi da analizzare, il fisiologo francese Etienne Jules Marey inventò il fucile fotografico e il cronofotografo. Marey era stato influenzato dal lavoro di Eadweard Muybridge, le cui foto grazie alla divulgazione scientifica,  si diffusero in molti paesi europei. Nel 1878, nel tentativo di dimostrare che in certe fasi del galoppo i cavalli hanno tutte quattro le zampe sollevate da terra, questo fotografo britannico piazzò dodici macchinette al bordo di una pista collegandone gli otturatori ad altrettanti fili che la attraversavano. I cavalli, passando, strappavano i fili e azionavano le macchinette. Secondo McLuhan in quegli scatti, in quella fusione di meccanico e organico che Muybridge aveva architettato, si può individuare una simbolica origine del cinematografo. Ne Gli strumenti del comunicare leggiamo che nel medioevo “il mutamento degli esseri organici era visto come la sostituzione sequenziale di una forma statica a un’altra forma statica”. Si immaginava cioè “che la vita di un fiore fosse una specie di striscia cinematica di fasi o essenze”. Sarà la ruota poi, che, sottoposta allo stress dell’innovazione di Daguerre, ed evolvendosi dal fantascopio e dallo zootropio in forma di bobina, riunirà le fasi, gli scatti di Muybridge in un continuum. È nei laboratori di Menlo Park (New Jersey), grazie al lavoro dell’ingegnere William Kennedy Laurie Dickson (impiegato di Thomas Alva Edison), e a Lione nelle fabbriche fotografiche in cui Louis e Auguste Lumière lavoravano con il padre Antoine, che la ruota (come bobina) e la fotografia si fondono nel kinetografo, nel kinetoscopio e finalmente nel cinematografo. “La ruota, – spiega McLuhan – nata come estensione dei piedi, fece con il cinema un importantissimo passo avanti”. Secondo McLuhan, che ha in mente l’esperimento di Muybridge, “la cinepresa e il proiettore nacquero dall’idea di ricostruire con mezzi meccanici il movimento del piede”. Il 28 dicembre del 1895, a Parigi, capitale del diciannovesimo secolo, la prima proiezione pubblica.

Come dice Walter Benjamin “il film corrispose a un nuovo e urgente bisogno di stimoli”. Si tratta del training richiesto dalla vita metropolitana: un training fatto di choc, di urti che rimodellano come automi. Baudelaire in un poemetto de Lo spleen di Parigi racconta del poeta che attraversando un boulevard – proprio tra ruote e cavalli – perde la propria aureola e non ha il coraggio di raccoglierla. “Mi parve – spiega il poeta a un uomo che lo riconosce e si meraviglia di vederlo in un bordello – meno spiacevole perdere le insegne che non farmi rompere le ossa”. Ma mentre Baudelaire si sottopone volontariamente all’urto della modernità usando il proprio corpo e il proprio intelletto come filtri, evitando cioè che lo choc venga assorbito dalla coscienza e diventi “esperienza vissuta”; il cinema, nella sua dimensione spettacolare, sempre più tenderà al superamento dello choc, cioè ad inserire lo choc in un percorso, fluidificando così il meccanismo sociale ed automatizzando la coscienza collettiva della società moderna. Questo cinema industriale, sul quale si concentrano gli interessi dei grandi monopolizzatori (primo fra tutti Edison), man mano che aumenta il proprio fatturato alleggerisce il filtro. Da un punto di vista linguistico il suo maggior successo è il montaggio invisibile: un’insieme di accorgimenti formali (regola dei 180 gradi, raccordi di luce, di movimento, di sguardi, raccordo sull’asse, regola dei 30 gradi ecc.) il cui obiettivo è quello di attrarre lo spettatore sonnambulo e immedesimato in una rete, di catturarlo in uno spazio senza uscite, uno spazio suturato. Un ultracorpo della visione, insomma, un surrogato di vita da spiare dal buco della serratura. Da un punto di vista strutturale, la fusione di organico e inorganico (ancora così scarsamente definita negli esperimenti di Muybridge e Marey) si va completando in un ritorno al corpo, ad una morbida macchina ri-prodotta (nel monopolio) sul nastro automatico di scorrimento dell’impresa del capitale mondiale. I media polverizzati (“la terza ondata” in cui sperava Toffler)  fanno già parte della pellicola della rete cellulare e organica che l’estensione (espropriata, autonoma, piatta) del nostro stesso sistema nervoso coordina. In questa prospettiva la monopolizzazione della produzione cinematografica è un esemplare tentativo di controllo del film biologico della carne in un momento in cui la reinvenzione del sistema percettivo è ancora ad un grado primitivo della sua evoluzione, o ad un grado avanzatissimo della sua involuzione. Quindi, proprio partendo dal cinema, dalla sua storia, si può cercare una strategia di fuga, “la maglia rotta, il corridoio, il vortice” (per usare ancora le parole di Ottonieri) che ci portino fuori dalla copia della vita, del corpo che piedi rapiti in bobine girano, cromosoma su cromosoma, nell’ingranaggio cellulare.

Viene subito in mente che chi ha tentato di reagire al cinema classico americano (il cinema del montaggio invisibile) e conseguentemente alla società  e al sistema di produzione che lo alimentavano, ha concentrato il proprio lavoro sull’esposizione del mezzo, sulla ruvidità, sulla discontinuità. La fotografia neorealista è ruvida. Il montaggio della nouvelle vague si avvale di tecniche contrappuntistiche quali il jump cut, l’hard cut, l’asincronismo, il ralenti, il fermo immagine, l’infrazione dei raccordi. Insomma, ci si oppone all’alta definizione del film biologico della carne cercando di lacerarne la pellicola, di mettere in primo piano le aperture attraverso le quali ognuno possa passare e liberarsi, sfuggire alle catene del montaggio lineare (o alle catene di montaggio della società spettacolare) per vivere autenticamente la propria vita. Sono sincopi della morbida macchina del corpo, dell’occhio.