Ritorno alla macchina del sogno (seconda parte)
di Luca Tedesco

In un Mondo di Numeri Infiniti

Alla fine del 1958, durante un viaggio in autobus da Parigi a La Ciotat, l’artista visivo e scrittore Brion Gysin, aveva vissuto un’intensa esperienza visionaria. In una lettera a William S. Burroughs – con il quale, in quegli anni, condivideva un piano al Beat Hotel – la descrisse così: “Percorrendo un lungo viale alberato ho chiuso gli occhi in direzione della luce del sole che stava tramontando. Proprio allora dietro le mie palpebre è esplosa un’ondata travolgente di disegni dai colori sovrannaturali, intensamente illuminati: un caleidoscopio multidimensionale che turbinava in tutto lo spazio. Mi trovavo in un mondo di numeri infiniti. Al termine degli alberi la visione si è interrotta bruscamente. Era stata una visione? Cosa mi era successo?”. Burroughs sapeva dove trovare la risposta e gli diede una copia di The Living Brain del neurofisiologo William Grey Walter, un pioniere dell’elettroencefalografia da anni impegnato nello studio degli effetti allucinatori prodotti dalla luce stroboscopica. Leggendo, Gysin scoprì che un’intermittenza luminosa tra gli gli otto e i tredici flashes al secondo (in quel caso su un milione, la luce tra gli alberi sul viale tra Parigi e La Ciotat), interferendo con dei ritmi cerebrali (i ritmi alpha, probabilmente responsabili del trasferimento delle immagini dalle aree di proiezione visiva alle aree associative del cervello) può provocare visioni di forme geometriche luminose dai colori ultraterreni che si sviluppano in complessità fino a quando lo stimolo persiste. Ma, visto che lo stroboscopio elettronico usato da Walter nei suoi esperimenti era estremamente costoso ed ingombrante, rimaneva il problema di come riprodurre il fenomeno, mettiamo, al Beat Hotel. L’idea per la costruzione del macchinario sarebbe venuta un annetto dopo a Ian Sommerville. Giovane matematico e amante di Burroughs, Sommerville realizzò la dreamachine piazzando un cilindro con delle aperture laterali sul piatto di un giradischi e calando dall’alto una lampadina all’interno del cilindro. Quando il giradischi si mette in moto l’intermittenza luminosa, colpendo gli occhi chiusi di chi sta con il viso vicino al macchinario rotante, induce la visione di visioni. La dreamachine è la sorella gemella dello zootropio, ma mentre lo zootropio sottrae un movimento al mondo restituendolo come copia e rendendolo monopolizzabile, la dreamachine permette a ognuno di vedere l’irriproducibile.

Nella sua dimensione spettacolare (quella dei grandi incassi) il cinema porta la capacità espressa dalla ruota del fenachistoscopio e dello zootropio ad un livello tale da distrarre completamente il pubblico e da attrarlo in una rete che con l’avanzare della tecnologia, come abbiamo detto, sembrerebbe riportarci dalla pellicola alla pelle. Una pelle rimontata, cucita, suturata secondo le esigenze dell’azienda dello spettacolo; una pelle che ci contenga e ci costringa sempre a pagare per vivere un film. Il disco di Benham, invece, ma specialmente la dreamachine rappresentano la possibilità di rompere la pellicola del mondo prefilmato (fratturando la materia prima della visione: la luce) e di passarci attraverso. Non ci sono visioni date, strette intorno ad un osservatore che soffoca e che diviene separatamente, come dice Debord, spettatore (acritico) e attore di una vita che si spaccia come merce attraverso il controllo delle immagini. La dreamachine non si pone nemmeno come un’opera (secondo Gysin in questo senso l’arte era finita), ma come una semplice macchina in grado di stimolare la visionarietà, una porta insomma attraverso la quale passare per sottrarsi all’universo della necessità biologica e del monopolio e viaggiare verso altre dimensioni solitamente escluse dal mondo (monopolizzabile) dell’interesse e della sopravvivenza dell’interesse.

Il fatto che siano proprio la frattura (della luce) e l’assenza di immagini predefinite a permettere l’esperienza visionaria, ci rimanda a quelle poetiche che hanno privilegiato la discontinuità, la rottura, in qualche modo l’assenza e la bassa definizione come elementi in grado di stimolare la vita in una dimensione non sostitutiva, ma di autenticità; quelle poetiche cioè, che mettendo in primo piano il filtro, il mezzo, la cornice più che la tela, si sono proposte di coinvolgere l’utente in un processo creativo da farsi – riassume Tommaso Ottonieri – “nel lavoro diurno del sogno”. Nel cinema, ad esempio, il neorealismo e la nouvelle vague; prima della nascita del cinema, la resistenza di Baudelaire all’assorbimento dello choc, al montaggio continuo della coscienza nella modernità, o lo sregolamento dei sensi (una frattura nel sistema percettivo) proposto da Rimbaud; e  prima ancora l’amore Romantico per il vago, per l’indistinto che suggerisce tutte le immagini, tutte le melodie, tutte le cose assenti.

La dreamachine (come oggetto) e la luce stroboscopica (in sostanza) rappresentano queste poetiche in un momento in cui l’estensione e ridefinizione tecnologica del corpo chiedeva nuovi accessi all’esperienza visionaria.