Ritorno alla macchina del sogno (terza parte)
di Luca Tedesco

Tele/Visioni. Un Film Biologico della Carne

Negli stessi anni in cui William Grey Walter sperimentava gli effetti dello stroboscopio, si diffondeva, prima in ambito scientifico e poi – attraverso Aldous Huxley, William Burroughs e Timothy Leary – anche altrove, un grande interesse per quelle sostanze chimiche prodotte per via sintetica (LSD) o come estratti (mescalina, psilocibina) in grado di aprire “le porte della percezione”. Huxley che in “Heaven and Hell” dedica un appendice proprio alla luce stroboscopica come “aiuto all’esperienza visionaria” sosteneva che il cervello umano sarebbe dotato di una valvola di riduzione in grado di limitare l’ingresso nella coscienza di elementi non utili alla conservazione di una (biologicamente) determinata dimensione della realtà. Le droghe psichedeliche, la dreamachine e la luce stroboscopica in genere sono in grado di compromettere il funzionamento di questa valvola ammettendo nella coscienza un flusso di percezioni molto più vasto. Si tratta insomma di indurre la disfunzione organica, la malattia della morbida macchina del corpo in modo da sabotare lo svolgimento del film biologico della carne e il business della “Società dello spettacolo”.

Proprio a partire dall’esplosione (oggi implosione elettrica) dello sviluppo tecnologico messo in moto dalla rivoluzione industriale, l’umanità, sempre con più successo, ha escluso (o sostituito su scala globale con il cinema delle grandi produzioni e la televisione della realtà) l’esperienza visionaria dai propri orizzonti. Nel mondo moderno (del nazionalismo, del progresso, dello stato laico), non incanalandosi più tanto facilmente in una sacralità amministrata come accadeva nel medioevo, la visionarietà come fenomeno diffuso costituiva una minaccia alla crescita dell’industria e alla ridefinizione della vita come copia e del corpo come merce. L’industria stessa così ha cominciato ad occuparsi delle visioni che tutti dovevano vedere, a riamministrarle, a somministrarle, a fabbricare la pellicola del mondo e i bisogni dei suoi abitanti, e (il passo è breve) la pelle da indossare. Con l’estensione del nostro stesso sistema nervoso su scala globale (la rete elettrica, le telecomunicazioni), la reinvenzione tecnologica (e monopolizzabile) del corpo e del mondo percepibile, sarebbe arrivata già negli anni sessanta del ventesimo secolo ad un punto tale da permettere a Marshall McLuhan di sostenere l’idea per cui la nostra pelle è la pelle dell’umanità. Sembra cioè che in questo nuovo corpo si stia in qualche modo realizzando quel processo di stabilizzazione totalizzante e totalitaria verso cui secondo il biologo e neuroscienziato Humberto Maturana, ogni società (come unità) tenderebbe, escludendo l’esistenza e l’impegno (cioè le scelte etiche) di osservatori critici. La nuova carne, una per tutti, salvaguarderà con il proprio sistema immunitario un’emergente identità spersonalizzante, schiacciando nella banalità dello spettacolo ogni errore, ogni errare, ogni guardare altrove. Mezzo secolo fa Aldous Huxley scriveva così: “Nel mondo occidentale visionari e mistici sono molto meno comuni di una volta (…) Nel quadro correntemente in voga dell’universo non vi è posto per una valida esperienza trascendentale. Di conseguenza coloro che hanno avuto ciò che essi considerano valide esperienze trascendentali sono guardati con sospetto, e considerati o pazzi o imbroglioni” (Heaven and Hell, 1956).

Se nel 1968 ne “Gli strumenti del comunicare” McLuhan diceva che l’uomo (come le api con i fiori) era diventato l’organo riproduttivo delle macchine, oggi (ma forse già dagli anni settanta-ottanta con il caso Chakrabarty) esce di metafora il concetto cyberpunk di madre multinazionale. Diventa quindi, sempre più importante mettere a frutto una poetica della rottura, della lacerazione che impedisca a questo processo di compiersi nella morte o funzionalità totale della copia meccanica di un mondo in autoplay.

Nelle considerazioni sviluppate dal professore e visionario canadese Marshall McLuhan intorno al concetto di invenzione tecnologica come estensione-autoamputazione, ci sono elementi (la formazione, in sostanza, di circuiti – chiusi come reti che tendono a conservarsi – tra il corpo e la sua riformazione meccanica, elettrica, genetica ecc.) che combaciano con quella causalità circolare nella quale il biologo Humberto Maturana aveva schematicamente individuato la caratteristica fondamentale dei sistemi viventi. A partire da queste piccole reti o tecno-cellule, la nostra immagine del corpo e del mondo percepibile può spostarsi verso l’idea di una completa e dinamica ridefinizione tecnologica (viva) della vita: lontana dall’equilibrio come le strutture dissipative definite dal fisico Ilya Prigogine e in grado di svilupparsi e ri-prodursi  secondo quei processi mentali di auto-organizzazione individuati nei sistemi viventi – indipendentemente dalla presenza o assenza di un sistema nervoso – dagli studi di Gregory Bateson e dello stesso Maturana.

Quindi, considerando il tempo nei suoi corsi e ricorsi storici, ma sfruttando, insieme a Vico, l’idea di autosomiglianza espressa da quella matematica della complessità che va fornendo agli scienziati impegnati nello studio sistemico della vita un linguaggio adeguato alla definizione delle loro scoperte, si torna al corpo: la tecnologia, di fatto, sembra evolversi in nanotecnologia e la nanotecnologia sublimarsi in ingegneria genetica. Ma non è tutto, perché questa dinamica di sviluppo o inviluppo che dal corpo porta al corpo è soggetta, e anzi, si compie grazie alla interferenza di gruppi di potere che agiscono da monopolizzatori vampiri della vita proprio nella forma della sua ridefinizione autoamputata e conseguentemente vendibile – pezzo per pezzo fino all’insieme – come necessità biologica dell’arto o dell’organo che manca. Alla fine – condensando e fondendo il discorso biologico e la questione politica – si tratta di un processo attraverso il quale l’autenticità vitale rischia di essere sostituita dalla grande produzione centralizzata di un film biologico della carne.

Nel 1972 la General Electric fece richiesta all’Ufficio Marchi e Brevetti degli Stati Uniti per depositare un microbo geneticamente modificato, frutto del lavoro dell’ingegnere genetico Ananda Mohan Chakrabarty, in grado di assorbire le perdite di petrolio e di trasformarle in sostanze non nocive. Benché l’Ufficio Brevetti e il governo degli Stati Uniti si opposero sostenendo fermamente che non si può brevettare la vita, dopo una serie di ricorsi, nel 1980 la Corte Suprema concesse la proprietà intellettuale sul batterio. Sette anni più tardi l’Ufficio dei Brevetti emise un decreto in base al quale tutte le forme di vita potevano essere brevettate eccetto l’uomo. Ma oggi, ogni volta che riescono ad isolare un singolo gene umano, le società di genomica e di biotecnologie affermano che la proprietà intellettuale del gene è loro. Nel giro di pochi anni, un piccolo gruppo di aziende possiederà l’intero genoma umano.

Loro producono il film.