Hooligani dangereux
di sparajurij

È in ritardo sussurriamo, ma è solo un esorcismo.

L’appuntamento era per tutti in piazza vittorio. Per attraversare il corso intabarrati come pirati, con ‘ste tute addosso che fanno fantasma e astronave. Il sole ci rimbalza, il sole siamo noi, vestiti così possiamo mimetizzarci solo in un big bang. Per fortuna al mac donald’s a qualunque ora è pieno, ci basta attacchinare e improvvisare qualche lieto shock. Solo che la zarina ancora non arriva e già si pensa che l’abbiano fermata. Intorno si sente che l’aria è pesa, girano camionette in cerca di capire che cosa è che facciamo noi. Zeno è lì lì per scoppiare nella crisi dell’anarchico disfatto, cose che succedono quando la militanza si è convertita in sbronza e gli anni fuori corso sono diventati una cifra esponenziale. Il megafono fa sciopero, non vuole saperne di sputare la voce, Zeno bestemmia, s’incazza con quanti non hanno pensato alle pile da comprare. E  questo, porco dio, non è professionale, e qualcuno lo appoggia nella sua smania di darsi da fare, Ciccio addirittura spegne il walkman con Radiohead e Mingus,  ritira le cuffie un attimo per dire Zeno, non si indigni, è tutto a posto, basta dargli un pugno a quell’affare e vedi che voce che ti fa, mentre Costanza apre lo zaino e i volantini le si sciolgono in mano come sottilette in rime baciate. Inizio alla distribuzione, gli sbirri che calano dai furgoni e sembrano plotoni delle armate achee, guardano, aspettano il momento per agire e intanto che l’azione parte Chiara ancora non si vede, forse l’hanno davvero presa in contropiede, sotto sotto immaginare che l’abbiano accerchiata e rapita per sempre, ma temere il peggio non è un gioco da duri, sono paranoie di chi non sa e gioca a disfarsi.

Ci sono le radio trasmittenti della questura che ammiccano e si spanciano e dicono cose, ci sono i caschi blu e le bluse allacciate, il megafono intanto ha fatto magie e  ha come una tosse che taglia l’aria, dice Compagni nutrizionisti cittadini poi si ferma, prende tempo, ci guardiamo attorno, in fondo non siamo poi così pochi come si pensava, possiamo fargli il culo a questi tarri in divisa, possiamo farglielo davvero sussurra Costanza e ci sentiamo sicuri e belli come quadri en plain air, come macchie sagge impressioniste.

Chiara era diventata da subito la principessa autorizzata del nostro corteo, la benemerita soubrette del popolo marziano. E d’istinto ci muovevamo in sua protezione, per difenderla negli scontri e nei passaggi di tensione; lanciavamo san pietrini per il nostro vaticano, come insetti che hanno chiaro chi è la loro regina. Se c’era da correre e si correva, era in genere a causa delle sue scorrerie, poiché spesso mimava le barchette clandestine e ondeggiava franando sopra sbirri come fossero mare scemo.

Il mese scorso ad esempio ci sono stati dei problemi: eravamo coperti da scudi di plastica e avanzavamo facendo il gioco ammicco ammicco alla polizia. Stare di fronte gli uni agli altri era sufficiente per farli innervosire. Poiché non hanno ordine di attaccare se restiamo tranquilli a chiacchierare. Poi di colpo lei è sembrato si innamorasse di un militare. Mescolando i suoi capelli rossi ai manganelli, infilando la lingua in tenute antisommossa. Su quest’impeto dell’imitare di gioventù è stata come ovvio fermata. Le persone come Chiara hanno la stessa indole dei fantasmi: ogni movimento ha la grazia di un ballo, e ballando diventano fotografie e poi nulla. Si riempiono di luce fino all’ultravioletto, spariscono.

Ciò nonostante Chiara arriverà, lo sappiamo, è solo questione di aspettare il tempo che ci vuole. Le microspie insomma come al solito hanno fatto il loro dovere, anche ai collettivi in facoltà non si può stare sicuri, le parole volano, si mischiano, le ingoiano dall’alto i questori innamorati, perché è amore in fondo quello che unisce noi a loro, gli sforzi dell’ordine non ne possono fare a meno di ascoltare e basta, decidere il luogo e l’ora e passarselo piano a bassavoce senza paura, che un attimo dopo sono lì dove avevamo pensato, perfettamente in fila ordinati e sicuri, la disoccupazione ci ha dato un bel mestiere, mestiere di merda carà-bi-niere mestiere d’assassino ce-le-rino. Più di una volta comunque li abbiamo ingannati. Nonostante le microspie e tutto il resto. Per un po’ si sono fatti piani di woodoo urbano, psicogeografia dei migliori pusher e disordine da periferia. Ogni giorno li mandavamo a spegnere fuochi in una zona diversa della città, a scoprire la bellezza di una tabula rasa. Amori difficili, incomprensioni e cazzinculo, ma di solito ce la fanno e quando non li vediamo un po’ ci mancano, non si dice, non si deve, ma sappiamo che senza loro la festa è soltanto un modo triste di dire addio.

Quando ci raggiunge tutto intorno è come un sospiro di fermo volere. La sua tuta è rosa invece che lucida e candida al sole, l’apparizione è quella di una zingara sposa; il laccio viola che le raccoglie i capelli dietro il collo. È qui, ci diciamo con gli occhi negli occhi, come una star s’è fatta attendere e ora interviene al momento che deve. Distribuisce agli astanti fischietti a forma di croce, mormora parole prese chissà dove. Prende Zeno da parte, gli molla addosso la colla, vinavil neutro e crema moschicida, comincia la fattura precisa e solenne, Chiara che taglia a ritmo pieno e distribuisce gli impasti sulla tuta per bene. Sentiamo che Zeno comincia a lamentarsi, blatera che al mac lui c’ha degli amici, ma Chiara è inflessibile, spiega che deve essere contemporaneo per prendersi cura di tutti, mentre la cartapesta procede, Zeno quasi pupazzo deve piantarla di rompere e sentenziare preoccupato sui destini della dignità umana. Lo vediamo trasformarsi in giocattolo spugnoso sotto i ferri periti del mestiere, sembra un pezzo di cazzo a metà, c’è quasi da non credere a tutta questa velocità. Ghignamo in silenzio, ma senza impegno per evitare le offese, e così partiamo.

Un passo dopo l’altro a precipizio sulla vita che attraversiamo sbendati come fosse l’abisso, in assedio per ogni cosa gloriosa. È l’orbita che si compie, attaccamento suicida al proprio destino. Ci siamo quasi. La digos ci vede per prima, sono appostati all’angolo con Piazza Castello, hanno paura di scompiglio, loro fanno un lavoro serio. Li sentiamo agitarsi e annunciare agli sbirri con un telefono in mano:

STANNO ARRIVANDO. SONO IN SETTE. UNO È VESTITO DA PANINO.