Dalle Acqueforti spagnole di Roberto Arlt
tradotte da Marino Magliani e Alberto Prunetti

Dopo le Acqueforti di Buenos Aires (2014), Marino Magliani e Alberto Prunetti hanno ora tradotto – sempre per Del Vecchio – una serie delle Acqueforti spagnole e in particolare gli articoli che lo scrittore argentino Roberto Arlt scrisse per “El Mundo” tra il 19 settembre e il 13 novembre 1935 viaggiando tra la Galizia, le Asturie (con la capitale Oviedo) e Cantabria. Nel luglio 1936, il colpo di stato militare precipiterà il paese nella guerra civile. Ma quando Arlt arriva a Oviedo, scrive, di essere “curioso di visitare una miniera” perchè la “grandezza della rivoluzione ha accentuato il desiderio di vedere i protagonisti dell’Ottobre Rosso muoversi nel proprio sottosuolo naturale”. Ecco la sua prima corrispondenza asturiana:

 

Arlt Acqueforrti-spagnoleACQUEFORTI ASTURIANE

OVIEDO, CHE RICORDA A TRATTI BUENOS AIRES – SOLDATI, GUARDIE D’ASSALTO, CANNONI E FUCILI – LE PERSONE HANNO PAURA DI PARLARE (“El Mundo”, 5 novembre 1935)

 

Roberto Arlt, nostro inviato speciale in Europa, dopo aver visitato l’Africa del Nord, l’Andalusia e la Galizia, ci invia le sue prime impressioni da Oviedo, la capitale delle Asturie, che fu teatro di gravi eventi di dominio pubblico. Pertanto le sue Acqueforti asturiane, la prima delle quali viene pubblicata oggi, riflettono con drammatica intensità quel che è rimasto di quegli avvenimenti: un popolo in agguato e una città segnata dagli effetti di quelle ore che sopravvivono nel ricordo degli abitanti. L’Asturia, con il suo popolo integro ed alle virtù secolari, da cui cominciò la resistenza contro i mori di Covadonga che dovette durare otto secoli, conserva il proprio carattere con il passare del tempo. Il suo paesaggio corrisponde alla fisionomia morale e fisica degli abitanti, e il mare che batte le sue coste colma di suggestioni una terra che occulta nel proprio seno grandi ricchezze minerali. Ma lasciamo parlare Roberto Arlt con la sua espressione grafica e pittoresca, non senza aver avvertito i nostri lettori che questi appunti sono stati già accolti da “El Mundo” tempo fa e che l’attuale pubblicazione obbedisce al proposito di lasciare spazio prima a quelli dedicati alla Galizia. Lavoratore infaticabile, Arlt raccoglie un materiale che deve essere assaporato nell’ordine in cui è stato concepito, per non interrompere così il ritmo dei suoi viaggi e delle sue osservazioni.

 

In questa serie di appunti sull’ultima rivoluzione spagnola, avvenuta l’ottobre dell’anno passato, non troverete episodi isolati o sensazionali. Racconta esclusivamente la vita degli abitanti di Oviedo nei giorni compresi tra il 5 e il 14 ottobre, quando la città fu occupata dalle forze del governo. Per dare un quadro di quei nove giorni di bombardamento, che non si interruppe neanche per un minuto, ho deciso di intervistare i commessi dei negozi, le maschere dei cinema, i piccoli commercianti, gli artigiani, i portieri. Di conseguenza queste acqueforti mancano di epopea brillante: sono oscure e monotone, come erano oscuri e tediosi i giorni in cui la popolazione si rifugiava in anfratti sotterranei.
D’altronde le persone sono curiose di sapere “come si viveva in quei frangenti”.

 

Oviedo

Oviedo riproduce con una fedeltà sorprendente un pezzo di Buenos Aires, nel suo centro. Ovvero quella zona della calle Rivadavia compresa tra le trasversali di Rio de Janeiro e Caballito. Il parco portegno di Lezica corrisponde a quello di Pablo Iglesias, nella calle Uria, che a sua volta, per l’eleganza dei suoi moderni edifici, è la Rivadavia delle Asturie. Con una differenza. Il Monte Naranco, coperto di tappeti erbosi e di oscuri seminativi, chiude con un colpo d’ascia la strada principale di Oviedo. Là erano disposte le batterie rivoluzionarie. A un’impressione gradevole ne segue una più amara. La città si è trasformata in una caserma. Ogni cinque persone che al nostro lato attraversano la strada, tre sono militari. Soldati del reggimento di Milán, guardie d’assalto, artiglieri della batteria di montagna, guardie civili, regolari, mercenari della 4° Bandera de la Legión, militari dell’Intendenza, carabinieri, polizia municipale. E non si contano gli agenti dei servizi segreti. La ricca città dei consorzi minerari si è trasformata in un parco pattugliato giorno e notte da truppe e da picchetti di guardie d’assalto.

I punti strategici (piazze, incroci delle principali strade, ponti, edifici importanti) sono costantemente custoditi da uomini col fucile in spalla.

Nei caffè, al cinema, dal barbiere, al cabaret o nelle taverne è impossibile tenere una conversazione senzala presenza di testimoni armati. Abbondano gli edifici colpiti dalla guerra civile. Devo scattare le mie fotografie con una certa prudenza: la città è in fase di ricostruzione, ma si procede lentamente. E nonostante le abbondanti forze armate che proteggono la città, i lavoratori del sindacato edile hanno dichiarato lo sciopero generale. Il governo civile ha risposto decretando l’illegalità dello sciopero ma il bando non sembra aver convinto i lavoratori perché ogni cantiere è posto sotto la custodia delle guardie d’assalto. Una sorda mancanza di fiducia induce la gente a non dare confidenza (ma non sono sicuro che intenda questo). In diverse pensioni mi hanno negato l’ospitalità quando hanno saputo che ero un giornalista. Alla fine sono stato ospite di un capoccia degli scaricatori di porto che si è impegnato a non segnalare la mia presenza in città alla polizia.
Tutte queste divise col fucile in spalla in una città tanto piccola danno l’impressione di trovarsi all’interno di un carcere. E, a dire il vero, qualsiasi edificio abbastanza grande qua è stato, almeno per qualche giorno, un carcere. Molti dei camion che oggi trasportano passeggeri o verdura per le popolazioni dei villaggi vicini sono stati utilizzati un anno fa per caricare cadaveri e spostarli dalla caserma di Pelayo o dalla Plaza de Toros, convertita in un obitorio di fortuna, al crematorio del cimitero di Gijón. I custodi del magazzino di tabacco, che si trova nei pressi della caserma di Pelayo, nei giorni successivi all’entrata delle truppe in città, sentivano ogni quindici minuti le scariche di fucileria. Gran parte dei morti erano stati uccisi con un colpo di pistola allanuca.

A Villa Fría le truppe di origine marocchina agirono con tale ferocia che i loro crimini sono stati raccolti in memorie testimoniali presentate alla Società delle Nazioni. I più fortunati sono stati quelli morti con un fucile in mano, mentre tentavano l’assalto, o caduti mentre maneggiavano una mitragliatrice. I conventi, semidistrutti dal fuoco dei rivoluzionari e dalle bombe degli aerei, furono trasformati in carceri provvisorie.

La gente ricorda quei giorni sinistri con le labbra strette. Non si fida di chi fa troppe domande. Lo sconosciuto è visto con sospetto, come una spia della polizia o un agitatore comunista. Peggio quando qualcuno pretende di informarsi in maniera minuziosa sugli episodi della rivoluzione. Ho visitato il bacino minerario: nessuno ha visto nulla, nessuno sa nulla. Se le caserme della Guardia Civil, squarciate dalle cartucce di dinamite, non dessero prova di ciò che è successo, sarebbe difficile dire che da lì è passata la rivoluzione. Ma non risulta difficile sospettarlo, considerando il comportamento dei minatori. Poco dopo aver accettato l’incarico del Ministro della Guerra, Gil Robles visitò la fabbrica di armi di Trubia, qui a Oviedo. Quando entrò nei laboratori, il direttore della fabbrica esclamò: –Sua eccellenza il Ministro della Guerra. –Ma nessuno degli operai al lavoro si girò o si tolse il cappello.

 

 

Per leggere le altre Acqueforti spagnole, e di come Arlt sia sceso duecentocinquanta metri sottoterra in una miniera asturiana, trovate già in libreria il volume pubblicato da Del Vecchio editore, che si ringrazia così come i traduttori per averci concesso di riprodurre uno dei testi della raccolta.

Per altre Acqueforti argentine Atti impuri n. 5 e Atti impuri n. 7.