La lingua nei Fanciulli di sabbia di Lorenzo Muratore
di Marino Magliani

Muratore_Fanciulli di sabbia L’editore Nerosubianco ha appena mandato in stampa il romanzo Fanciulli di sabbia di Lorenzo Muratore, arricchito da una postfazione di Marino Magliani. Il testo che segue è una nota originale con cui Magliani vuole presentare ulteriormente ai lettori un’opera sorprendente sia per il contenuto sia soprattutto per la preziosità della lingua in cui è scritta. Alcune pagine del romanzo erano state da noi pubblicate in anteprima su Atti impuri, vol. 3.

 

La lingua nei Fanciulli di sabbia di Lorenzo Muratore

di Marino Magliani

   Un romanzo che nell’estremo ponente girava tra i pochi da parecchio, pare, l’ha scritto Lorenzo Muratore, ed è uscito per l’editore piemontese Nerosubianco. I luoghi non si menzionano, sono cittadine sul mare, ed è ambientato nel dopoguerra. Romanzo di tormenti, di vite scomparse nelle acque, ma fatto di una lingua che si inarca e implode, si estende, si spezza quando gli archi non reggono, una lingua, insomma, ed è la cosa che più conta. Per il resto, personaggi letterari che escono dalle pagine e vi fanno ritorno, con caratteri ricercati eppure appartenenti a quel filone abbondante di invenzioni tentate da certi narratori talentuosi, e tra questi, intendo tra i personaggi, persino uno scrittore, chiamato Francesco, e poi gioventù e intellettuali. Su tutti il protagonista, e l’io narrante, esterno, che distribuisce il tempo e racconta di giochi estremi lasciando che i personaggi appaiano come per scoprire un eccesso del mondo, un disordine, e bruciare un’epoca, e qua e là persino un ambiente religioso. Questo è ciò che trovai quando mi apparve la fragilità sognante di Gabriele, il protagonista. « … e Gabriele scopriva nel breve silenzio tra una parola e l’altra uno spazio smisuratamente ingrandito dagli abissi interiori o piuttosto vi rimaneva intrappolato».
L’incipit, un brano dalla lingua che mostra tendine rigonfie d’arie dissolute, imbarazzi e scivolosi pericoli, abissi, e di nuovo archi e porpore e barocchi, era uscito sulla gloriosa rivista degli Atti Impuri, a cura di Claudio Panella e dei ragazzi di Sparajurij.
In un mio dossier sulla letteratura del Far West ligure avevo parlato, per quel che posso dire, delle mie Macondo e delle mie Combray, e di quella scheggia di terra, e delle pagine che a volte altri scrittori mi danno in lettura, e tra queste l’opera letteraria di Muratore. L’editore di Fanciulli di sabbia mi ha chiesto di poter utilizzare un piccolo brano di quel dossier che è ormai archeologia, per raccontare il mio rapporto di affetto con quel mondo a ridosso di montagne, frontiere, la Val Nervia, o appena lontano, Sanremo, fin su a Corte e Realdo, e poi di nuovo giù alle spiagge di scogli, come a chiudere un cerchio di luoghi e romanzi. Qui ho l’occasione per aggiungere, e credo sia stato anche per Claudio (come per chi ha letto), che è stata la lingua, anche se talvolta nella sua forzatura, a catturare. Il resto, s’è detto: c’è un io narrante esterno che sa tutto, e ci parla di un Gabriele ragazzino che vaga, smarrito, alla scoperta o al rifiuto dei sensi, anzi neanche alla scoperta, ma è come se fosse il mondo intero che lo circonda ad attirare Gabriele nei suoi meandri più oscuri, e in tutto questo tempo che passa, qua e là, in alcune occasioni, egli se ne va un po’ ammirato e a tratti anche irritato da questo scrittore che appare, spiega le cose vissute, e viene definito Grande, ma grande in proiezione, perché non ha ancora scritto nulla, e al quale futuro scrittore, un giorno (come se l’io narrante esterno provasse a forzare le catene della narrazione e a balzare nel futuro per farci sapere che più che una fauna c’è un mondo in luogo nascosto non si sa dove, in un altro secolo), cinquant’anni dopo circa, verrà dedicata una via della città. Romanzo di rotoli, di anse rocciose e spiagge e orizzonti languidi (ma senza dipingerceli perché la lingua franerebbe nella realtà), di estati sonnolente e pomeriggi e brusii come per Il Peccato di Boine, quando al cadere dal muretto di cinta del convento, le mani del personaggio si aggrappano ai filari, si feriscono, lordandosi di sangue e di grappoli d’uva rotti. Credo che a Muratore premesse molto inventare un linguaggio e accendere il fuoco accanto a quell’archeologico post-bellico (è bello: post-bellico dell’estremo ponente, così, come l’ha chiamato poco fa Claudio Panella mentre se ne parlava) e farlo brillare un’ultima volta, semmai un’epoca possa brillare di luce propria.
Perché, dunque, leggere Fanciulli di sabbia quando la sabbia è già tanta, e anche di questo genere, e di dissolutezze più o meno gravi; quando ci troviamo in studi di dottori che diventano comitati di Liberazione, e poi appaiono le parole di un Paul che è Paul Valery e poi anche un «certo Paul» che fa sport; quando un personaggio che compare cinque o sei volte può venir chiamato Francesco e aver parlato di poesia e rivoluzione e corso tra le pagine le pericolose spiagge e le pinete di un tempo che non si può calcolare come composto da cinquanta o sessanta o settanta anni fa, ma come se nella sua rottura lo fosse da secoli, e assomigliare a uno scrittore o essere chiamato Giorgio o Guido, Elio, o che ne so, il vescovo diventare un Cardinale e il dottore che ha ancora il fucile della Resistenza sparire; o i personaggi venire chiamati, come talvolta capita in qualche invenzione della narrativa italiana, Palmiro o Italo e aver fatto i partigiani e da ragazzi essere scappati dalla quota del costone alla ridacciana riviera; perché farci raccontare da Muratore di corridoi all’ombra del Vaticano e preti e perpetue, e ci mancava poco che non si arrivasse al papa, sempre con quell’occhio alla malinconia di un Gabriele che « … imparò a farsi dottore ne la nuova grammatica delle potentissime parole…»? Per la lingua, mi ripeto, che è il motivo per cui lessi una pagina dell’opera letteraria e andai avanti, a volte tornando per capire, per poi scrivere, e prima pensare, che là dentro, in quella lingua che poteva parlare di estremità carnali inaccettabili, dette o compiute o solo immaginate, o di cavoli in Estremadura o pontili fradici lungo un canale del Nord, e persino di una scheggia ligure e remota nel tempo di una soffitta dell’impero, secondo me c’era semplicemente quella curva imperfetta delle parole, che non di rado, che è cosa rara, scintillava come un cielo di settembre.
Certo, purtroppo, non troverò mai – nel senso che finora non l’ho trovata mai nelle due tre lingue in cui leggo – la prosa dell’opera letteraria di Francesco Biamonti, quello vero, intendo, non «il Grande scrittore» inventato, quello vissuto e che ci ha regalato capolavori. Però a volte, come nel caso di Lorenzo Muratore ed Elio Lanteri, ci sono riverberi che non si possono perdere, «luminoso spettacolo lungo lo stradone…» i cui «arcaismi si rivelano fiammanti neologismi, com’è stato osservato da uno dei pochi, autorevoli, lettori», ci dice il curatore. Insomma, forse, per farla dire a Gabriele: «Quelle cose per me sono un mondo d’echi lontani, la baldoria che resta d’una notte».