Sostituire il vuoto. Su Il canale bracco di Marino Magliani

magliani_canale braccoHo incontrato di persona Marino Magliani in tre o quattro occasioni, quasi sempre di sfuggita, un abbraccio al volo e via, in ogni gesto la promessa di rivedersi prima o poi unita al rimpianto di non essere riusciti, ancora una volta, a condividere qualche ora insieme in santa solitudine lasciando che le nostre voci e i nostri sguardi si affratellassero quel tanto che basta per suggellare definitivamente quell’istintivo senso di amicizia già collaudato grazie ai molto meno sporadici scambi a distanza. Di lui, in realtà, so poco, e il poco che so affiora dalla lettura dei suoi libri, dalle lettere che ci siamo scambiati e sopratutto dal ricordo nitido che conservo delle sue iridi acquose, quasi trasparenti. Ecco, credo che basterebbe intercettare gli occhi di Marino anche solo qualche secondo per capire che tutte le sue storie stanziano esattamente lì, aggrovigliate e fluide sotto quelle palpebre spalancate, sempre pronte a captare qualcosa di prossimo all’infinito. E credo anche che il segreto ultimo della sua letteratura tanto appartata e misteriosa si riveli nella condizione di esule in moto perenne fra i cui confini ha scelto di vivere. Al contrario di me – un inguaribile e frettoloso stanziale – Marino appartiene a quella fascinosa categoria di viaggiatori che ho sempre invidiato, vale a dire i randagi con radici: camminanti capaci di percorrere e vivere il mondo (a piedi, senza fermarsi mai) lasciando però spazio a un reticolo di ponti invisibili in grado di mantenere collegati il punto di partenza e quello (febbrilmente mobile) d’arrivo. Un vagabondo solitario ma mai solo che sceglie le sue prede fra i paesaggi più insoliti che si possano immaginare, come nel caso del Noordzeekanaal, il serpente d’acqua salmastra che unisce il Mare del Nord ad Amsterdam, sinuoso protagonista di questo nuovo, soprendente libro. Ora, volendo riassumere il tessuto narrativo racchiuso fra le pagine de Il canale bracco potremmo semplicemente dire che si tratta di un breve e intimo reportage in cui l’autore si propone di disegnare la storia di un corso d’acqua artificiale lungo circa una ventina di chilometri. Ma chi ha avuto la fortuna di conoscere da vicino la scrittura di Marino sa bene quanto sia lontana da facili etichettature e come possa risultare riduttivo imbrigliarla in qualsivoglia classificazione. Potremmo forse parlare di diario di una fuga, di un insieme di microracconti nel racconto, o ancora meglio di un catalogo di acqueforti (“genere” caro a Magliani, fine conoscitore di Roberto Arlt), che forse varrebbe la pena di personalizzare con acquebracche, se solo non suonasse troppo pagliaccesco. Eppure, ancora una volta, quello che resta di questa scrittura ibrida e proteiforme non è il racconto in sé, ma il senso affettivo di un correre perpetuo che trova la propria linfa vitale nell’infaticabile e mutuo scambio di fluidi tra vita e mondo, inseguendo meccaniche molto simili a quelle che governano la biologia di certi esseri squamati:

“La pelle di un pesce separa due liquidi, è una barriera, in pratica segna anche lei una frontiera: da una parte c’è l’acqua dolce, salmastra o salata, dall’altra il sangue del pesce. L’acqua dolce è meno concentrata del liquido che circola nel pesce, e allora il sangue deve impedire all’organismo di scoppiare, consentendo alla pelle di assorbire la giusta quantità d’acqua… Nei pesci d’acqua salata avviene il contrario. Il liquido in cui nuotano è più concentrato del sangue, per questo i pesci marini devono bere in continuazione, per sostituire le sostanze liquide perdute”. (p. 73)

Insaziabile bevitore di ossigeno, ecco allora il pesce Marino che nuota senza sosta, amministra la propria fame di esistenza remando con gli occhi, il suo timone due pupille che non sembrano capaci di cedere nemmeno alle spinte del sonno. Chissà cos’è che cercano per davvero, quei suoi sognanti occhi d’acqua. Credo che la risposta, in fondo, sia racchiusa in un’unica, memorabile frase nascosta fra mille altre, una frase che vale la pena appuntarsi: “Di un passato, di un mondo, rimane sempre una traccia, un segno a disposizione con cui sostituire il vuoto. Ma il vero paradiso perduto è quello che non abbamo mai visto e non troveremo.”
Ecco, mi pare che il segreto delle iridi di Marino Magliani stia tutto, tenacemente, qui.

Ade Zeno

Marino Magliani, Il canale bracco, Fusta editore, 2015