Su La grande mappa, di Giuliano Tabacco

tabaccoIn Che cosa è la letteratura? Jean-Paul Sartre sosteneva che  «la funzione dello scrittore è di fare in modo che nessuno possa ignorare il mondo e dirsi innocente». Se riteniamo valido tale postulato, allora non potremo che constatare la denuncia ripetuta in questa plaquette d’esordio di quanto sia marcio il sistema economico, lavorativo e quindi sociale nel quale siamo immersi fino al collo.

Non a caso è la gola il punto debole degli umani, ossessione presente in vari testi, tallone di Achille degli spiriti affamati, simbolo dell’avidità e della corsa al piacere contemporanea. Secondo la tradizione buddista, gli spiriti affamati vengono rappresentati con una lunghissima gola stretta e uno stomaco enorme. Sono condannati a vagare sulla terra aspettando che qualcuno getti loro del sale, del riso, o dell’acqua.

In queste pagine non ci sono innocenti, non lo è neanche il protagonista delle poesie che presta man forte a chi ha più potere di lui e lo disprezza.

Colui per il quale lavora è una sorta di dio invisibile, non responsabile dei mali del sistema, perché semplicemente la categoria del padrone non è più rintracciabile. Siamo tutti imprenditori di noi stessi. Questo pare dirci Tabacco.

Bisognerebbe parlare delle poesie particolarmente riuscite, ricordare che spesso poco si salva in un’opera di esordio, specie se ridotta a una trentina di pagine. E questo non è assolutamente un problema quando le poesie che ricordiamo sono importanti, fanno la letteratura. Ne bastano cinque o sei. Ci danno una visione del mondo e presentano un autore altrettanto bene di quanto farebbe un romanzo. Sarei perfino tentato di dire a chi non ha ancora pubblicato in volume: non dare alla stampe il romanzo della tua vita, quello definitivo che ti trascini da anni e col quale vorresti ringraziare De Lillo e Houellebecq, e così pesare sulla nuova narrativa italiana. Scrivi una manciata di poesie senza infingimenti né trucchi, con la disperazione data dal tuo sentimento di impotenza rispetto alla realtà che ti circonda e che non puoi cambiare, e se quelle poesie sono state nutrite da una tradizione e resistono per qualche anno alla prova della lettura ad alta voce, avrai risposto alla domanda di Sartre.

Ma tornando alla plaquette di Tabacco, direi che vi sono – a parte le famose cinque o sei poesie davvero nuove (p. 9, 18, 31, 37, 41, 42) – le altre di ispirazione deangelisiana e risalenti agli anni ’90 in cui non mancano bei versi isolati o gruppi di versi efficaci,  ma che però non la dicono tutta. Restano al di qua dell’orizzonte di attesa che le altre propongono. Tabacco si è trovato sulla linea dello spartiacque creato dalla morte di Fortini (e di una poesia politica nel senso alto del termine), e la prosecuzione dell’opera di Milo De Angelis, ellittica fino al midollo, tagliente, tanto che ha finito per tagliarsi da sola e farsi repertorio di lampi, più che di testi che tengono dall’inizio alla fine.

Le poesie orfiche di Tabacco hanno lo stesso destino. Non sono coese, e l’arbitrarietà di immagini e significati non può che lacerarle. Abbiamo dunque a che fare con dei lacerti che contengono distici o singoli versi fortunati.

Quasi alla fine del volumetto, c’è una poesia su Milano che esemplifica bene quanto è invece diversa la struttura e la pasta di cui è fatta l’anti-lirica in cui tutta una società può rispecchiarsi; cosa impossibile con le liriche ermetiche, dato che i vetri sono stati rotti.

Ma non è forse sbagliato tirare in ballo il libro sugli scritti dei terroristi italiani, che Tabacco ha pubblicato qualche anno fa, derivato dalla sua tesi di dottorato, se come credo c’è una consonanza tra la violenza di chi voleva cambiare il mondo con le bombe e i graffi delle prime prove orfiche.

Eppure ciò che ricorderemo più facilmente è il nichilismo dei componimenti più estesi, la resa totale dell’individuo cha si affaccia alla finestra del suo ufficio e che sa di essere già segmentato dalla Grande Mappa, una vasta operazione di ricerca di dati personali, allo scopo di facilitare il lavoro del marketing. Di conseguenza, troveremo molti riferimenti al calcolo, alle cifre, alla matematica e alle transazioni.

Se il nostro orizzonte comune è questo, e questo il nostro linguaggio, allora è davvero finita, e il poeta è una Cassadra, oltre che un parassita, come sembra alludere la citazione di Brodskij posta in calce al volumetto.

Non so se Giuliano Tabacco abbia l’intenzione di continuare sul cammino intrapreso e se la sua selettività, la sua ritrosia, i suoi ritmi (una trentina di componimenti usciti in venti anni) gli permetteranno di realizzare un’opera più corposa. Quel che so invece con sicurezza è che la forza della poesia qui viene fuori senza enfasi, senza grida. È un post-realismo che non si accontenta di speculare sulla tragedia e trattarla come una finzione da raccontare con ironia. Qui di bello c’è che tutto suona vero, come il dolore di chi non è potuto diventare l’uomo che voleva:

 

Dirò comunque che la calda vita,

arrampicata fino ai vertici più alti delle costellazioni,

non è fatta forse per essere vissuta veramente

e con dolore.

Sono molte, troppe le cose che non ci riguardano

E che aspettano che noi ci consumiamo. 

Fabrizio Bajec

Giuliano Tabacco, La grande mappa, Transeuropa, 2016

euro 7,90