Hervé Guibert, La pudeur ou l’impudeur
di Ade Zeno

la pudeur ou l'impudeur«Oggi, 13 agosto 1990, termino il mio libro. Il numero 13 porta fortuna. C’è un netto miglioramento nelle analisi, Claudette sorride (mi inganna?). Ho cominciato a girare un film. Il mio primo film». Con queste parole termina Le protocole compassionel, uno degli ultimi sconcertanti romanzi – scritto in meno di due mesi – dello stesso autore che appena pochi mesi prima aveva sconvolto l’opinione pubblica francese con À l’ami qui ne m’a pas sauvé la vie, diario appassionato e crudo della battaglia iniziata a combattere, dal suo corpo e dalla sua anima, contro un mostro infallibile chiamato Aids. Di quei due libri – e dei tantissimi altri che, malgrado la giovane età, seppe scrivere – in Italia restano oggi soltanto timide ombre, e le poche traduzioni uscite cavalcando il clamore mediatico seguito a quella tragica sconfitta sono ora perlopiù esaurite o difficilmente reperibili. Eppure Guibert fu un grande scrittore per davvero, e pur essendo ricordato soprattutto per le opere che volle dedicare a quella insaziabile malattia andrebbe soprattutto riscoperto per i molti altri più che notevoli titoli come Mes Parents, Des Aveugles, Le Paradis, o per quella Mort Propagande che a soli ventidue anni gli valse l’ammirazione e l’amicizia di Roland Barthes e Michel Foucault. Tutte opere in cui l’elemento autobiografico, la forza dei ricordi e soprattutto l’esibizione continua della propria vita, della propria sessualità e del proprio corpo ricoprono un ruolo assoluto, fondamentale, opere, insomma, scritte negli spazi offerti dalle ossa e dalla carne, parole graffiate sulla pelle seguendo alla lettera il principio del tout dire, del tout montrer. E dunque la malattia, l’inarrestabile decadimento corporale causato dal virus malefico non potevano che essere vissuti dalla voce di Guibert come il segno tangibile di un percorso artistico interamente dedicato ai misteri dell’autorappresentazione: la scena, i personaggi, i movimenti non cambiano, a sconvolgersi, semmai, sono i destini in cui erano state intessute le loro storie fino al momento del contagio, il punto di non ritorno trasformato ora in pretesto per un nuovo scavo, un ulteriore affondo alla scoperta della fine. Ogni frase, ogni dialogo, ogni figura diventerà da adesso in poi un modo per prendere tempo, ingannare la morte, fuggire – affrontandolo – l’orrore del rapidissimo declino fisico. È da qui che nasce il Guibert di À l’ami qui ne m’a pas sauvé la vie, di Le protocole compassionel e del postumo L’homme au chapeau rouge, ed è dalla stessa ansia vitale che prende forma La pudeur ou l’impudeur, il film cui alludono le righe citate sopra. Era l’inizio del 1991 quando Hervé decise di realizzare un auto-documentario filmandosi, con una videocamera analogica, per tre lunghi mesi. Un video che registrava la vita del protagonista in ogni suo aspetto quotidiano: i farmaci, le cure, i colloqui coi medici, i momenti di stallo in contemplazione del nulla, fino alle parentesi serene sull’isola d’Elba, luogo che aveva eletto come sua seconda patria, e che poi scelse come dimora per essere sepolto. Impossibile non pensare a un passo emblematico del suo libro d’esordio (il già citato La mort propagande, 1977), quasi una premonizione che recita: «Faire filmer mon corps en décomposition, jour après jour, éclaté sur le feu, étalé, cloué, exposé, mimant le supplice des cents morceaux dans un jeu de masques chinois. Faire disséquer mon pif et mon cul devant l’optique de la caméra. En faire voler les fibres, danser les nerfs, asperger. Ce spectacle ravira, plus beau qu’un film d’horreur, plus tragique qu’un sacrifice de sainte dans la mâchoire d’un tigre». Decise anche di imprigionare su nastro gli ultimi giorni di vita della sua adorata e vecchissima prozia Suzanne (già personaggio centrale di  libri come Les Gangsters o Suzanne e Luoise) cercando un evidente legame fisico e affettivo tra il disfacimento di due corpi uniti dall’identico destino. Guibert, insomma, mette in scena la propria fine, lascia che gli sguardi dello spettatore si struggano impotenti al cospetto della sua bellezza perfetta nullificata nelle forme spigolose di uno scheletro, i suoi occhi sempre più spenti si fanno intercettare accompagnati dalla voce pacata e sensuale del loro ospite, ma non sono lì per cercare pietà o commiserazione, quelle pupille ormai dissolte desiderano soltanto lasciare il segno, l’ultimo, di un amore spietato, estremo, senza condizioni, lo stesso amore per la vita col quale – a dispetto dell’altro, mortifero contagio – vorrebbe infettare tutti noi. E l’infezione ci raggiunge proprio oggi, a distanza di quasi un ventennio, grazie alla casa di produzione BQHL, che ha deciso di pubblicare per la prima volta questo documento straordinario, bellissimo e spaventoso. Hervé Guibert morì a Parigi il 27 dicembre 1991, chiudendo troppo precocemente trentasei anni di vita votati alla scrittura, all’arte, e alla vita stessa. Sarebbe davvero bello pensare che l’incontro con il corpo svanito di questo grande scrittore possa far vivere ancora per un po’ almeno i suoi libri, le sue storie, le sue parole.

[pubblicato, in forma ridotta, sul settimanale “Gli Altri” di venerdì 8 gennaio 2010]