La città di freddo
di Ade Zeno

Era una città di freddo. I muri, le strade, i binari del tram, gli interstizi sbilenchi che si piegavano sulla superficie dei marciapiedi, le teste dei passanti, perfino le ali dei colombi in bilico sui cornicioni: tutto era abitato da un freddo bianco e truce. Lo scrittore (ma forse era un poeta, oppure un portalettere) decise di parlarne, di dare corpo a questo gelo affidandolo a qualche decorosa parola. Ma si trattava di uno scrittore (o, lo ripetiamo, di un poeta, o di un postino) molto pigro, abituato a disperdere le energie in lunghi periodi di stasi. Inutile dire che la stasi è una malattia di cui i poeti  vanno piuttosto fieri, anche se produce effetti collaterali piuttosto sgradevoli, come ad esempio (in realtà soprattutto nel caso dei portalettere) il ritardo nella consegna delle raccomandate. Lo scrittore della città di freddo, però, non disponeva di pacchi da recapitare, e almeno da questo punto di vista aveva la coscienza a posto. La pigrizia, comunque, lo tenne fermo per tutto l’inverno, e per buona parte della primavera, cosicché arrivò a trovare le forze per mettersi finalmente a scrivere quando il ghiaccio si era ormai sciolto da un pezzo, sostituito dal caldo opprimente che da alcune settimane andava sbraitando grazie all’agosto più afoso del secolo (secondo alcuni, del millennio). Lo scrittore, che come molti altri suoi simili nutriva verso il sole un rispetto viscerale – rispetto derivato in primis dal fatto che la luce e il tepore dei raggi ultravioletti gli procuravano una diffusa sensazione di benessere – si sentì a questo punto risorgere, arrivando perfino ad illudersi di essere guarito dalla pigrizia. Ma si trattava, appunto, di un’illusione, e sotto sotto sapeva bene che a breve si sarebbe di nuovo accasciato, dunque decise di approfittarne e andò a cercare fra i suoi quaderni gli appunti che pensava di aver preso durante l’inverno. Appunti che ovviamente si rivelarono per quel che erano, ovvero una massa indistinta di pagine vergini, tuttalpiù graffiate con qualche riga sbilenca e mezza dozzina di scarabocchi ridicoli. Aveva riflettuto a lungo sulle parole da utilizzare per dar corpo alla città di freddo, ma era anche vero che di quegli scarabocchi mentali non era rimasta traccia, per la semplice ragione che in tutto quel tempo non aveva mai mosso un dito, figuriamoci la penna. La cosa lo sorprese fino a un certo punto e non si perse affatto d’animo, cosicché in un batter d’occhio si mise al tavolino, scrutò per qualche istante fuori dalla finestra, e dopo aver chiuso e riaperto le palpebre tre o quattro volte scrisse d’un fiato: «Era una città di freddo. I muri, le strade, i binari del tram, gli interstizi sbilenchi che si piegavano sulla superficie dei marciapiedi, le teste dei passanti, perfino le ali dei colombi in bilico sui cornicioni: tutto era abitato da un freddo bianco e truce». Che i meno distratti fra i lettori certo riconosceranno come le prime quarantacinque parole del presente resoconto.