Il pescatore
di Elisa Botticella

Pubblichiamo il secondo dei tre racconti segnalati al Concorso letterario “Racconti impuri” in collaborazione con gli Aperitivi informativi dell’InformaGiovani di Torino.

Scese dal molo. Prese le reti e le dispiegò. Il mare era calmo e languido, come il corpo di una donna subito dopo aver fatto l’amore. Lui non si girò mai, verso il mare intendo. Tanti anni al porto e mai una volta che avesse guardato il mare. O almeno lui non se lo ricordava. Sì, naturalmente il suo sguardo saltellava da un punto all’altro dello spazio e di tanto in tanto capitava che incrociasse quello del mare. Ma mai una volta che lo avesse guardato dritto negli occhi, che si fosse lasciato stregare o che lo avesse controllato o che si fosse semplicemente goduto la sua bellezza. Soprattutto quando era molto arrabbiato gli occhi gli tremavano un po’, come dalla paura di scoppiare. La faccia si impreziosiva di un rossore virginale e le orecchie si allontanavano dal capo. È strano a dirsi ma quel piccolissimo movimento atavico, da ricondurre a un istinto animalesco di quando eravamo ancora creature semplici e i pericoli li sentivamo spostando le orecchie, ebbene quel piccolissimo e impercettibile movimento racchiudeva tutto il suo timore e stupore nella rabbia. Come se quel sentire di esserci, anche solo nella rabbia, non riuscisse proprio a capirlo, non riuscisse a sentirlo suo.
In fondo il suo lavoro gli piaceva: aggiustare motori, riparare le reti, svegliarsi prima di tutti e arrivare quando tutto era ancora nuovo, quando tutto era ancora suo. Gli piaceva riconoscere le ombre nella notte, l’ossessione di imprigionarle nella memoria e ridisegnarle, ancora e ancora, estirparli dalla confusione dell’oscurità e appropriarsene, riappropriarsene tutti i giorni. A sera sarebbe tornato a casa e, dopo qualche cucchiaio di brodo o una patata bollita, avrebbe ricominciato a vivere il porto, riportando su pezzi di giornale ogni minimo dettaglio. La vita, in quei momenti, era piena di lussuria, devozione e santità. Sì, il suo lavoro lo adorava, lo aveva sempre fatto, fin da bambino. Nessun padre che lo avesse portato al porto, no, era lui che ci andò, una volta, così, per caso. Quanti anni erano passati? Non se lo ricordava più. Avrebbe detto “tanti”, ma solo perché sarebbe stato più facile e meno doloroso che contarli davvero. Sì, il suo lavoro era un gran giro di giostra e poi era l’unico che avesse mai fatto.
Poteva sembrare strano ma in vita sua Totò non era mai stato in mare. Tanti anni al porto e non aveva mai visto il blu. Lui, in verità, non ci aveva mai neppure pensato. Erano gli altri che ogni tanto gli gridavano: «Totò! Domani ti porto a pescare!», e ridevano. Lui li guardava da sotto le ciglia scure, sorrideva e andava via. Non aveva paura, non era pigro. Solo non ci era mai stato. Non riusciva a pensare se stesso nel mare, lì dove la luce si frammenta in tanti piccoli capricci di sole e gocce e l’imbarazzo ti punge il viso e lo sguardo sventola pieno di malinconia. Non aveva rimpianti, l’aveva sempre fatto, sarebbe stato facile anche questa volta. Svegliarsi quando la notte è ancora notte, stropicciarsi gli occhi impastati di lacrime e sale, levarsi dal letto e guardare fuori, sciacquarsi il viso, le mani, respirare e fondo, partire, passare dietro la casa di Nicola e vederne i panni appesi, Donna Lucia è già sveglia a preparare il caffè al marito, il micio mangia gli avanzi dal cassonetto ti guarda si blocca un istante e scappa via, giri a sinistra il lampione è spento, di nuovo a sinistra la discesa e la macelleria, l’odore di rosmarino, a destra alla statua del diapason e poi giù fino al campanile, poi a sinistra subito dopo il roseto della vedova Nicosìa, giù per i gradini lunghi che non riesce a farli né con un passo né con due passi. Il mare. Non è che lo vedesse, sapeva già che era lì. Se, per follia, il mare nella notte avesse potuto prosciugarsi per non ritornare mai più, lui da solo non se ne sarebbe accorto. Almeno avrebbe aspettato le grida di qualcuno che, scioccato dalla vista sorprendente, si fosse trovato di fronte a un’immensa pozza prosciugata piena di cadaveri di pesci e polpi e razze, che scendeva giù sempre più rapidamente e crollava all’orizzonte. Allora anche Totò si sarebbe accorto, ma delle grida si sarebbe accorto e solo dopo del fatto del mare, dopo se ne sarebbe occupato, mai se ne sarebbe accorto, della faccenda del mare.
Allora quella mattina era come tutte le altre, si alzò, pensò “che giorno è oggi?”, non se lo ricordava. Si levò dal letto, mise le scarpe, il sale bruciava come il dolore di un rimpianto negli occhi che sembravano il doppiofondo della sua angoscia. Alzò la testa e guardò fuori, alzò la testa e non lo sguardo, guardò fuori come un gesto meccanico, là fuori poteva anche scoppiare una guerra atomica, milioni di cadaveri ovunque, pezzi di braccia e di gambe, sangue, lutto e disperazione, tutto poteva succedere, ma lui non se ne sarebbe accorto. Guardava fuori come si guarda la strada che fai tutti i giorni, più volte passi meno ci farai caso, poi a un tratto alzi gli occhi e lo vedi, lì vedi quello che c’è sempre stato, quel campanile, quella finestra, quel basso rilievo. Lui è sempre stato lì, non è che si sia mai mosso, non è più bello del solito, è che proprio tu non ci avevi mai fatto caso, ci passi ora e te ne accorgi e non ci avevi mai fatto caso, mai.
Quella mattina alzò la testa e guardò fuori, la polvere della quotidianità filtrava ogni raggio di realtà dall’esterno. Si sciacquò il viso, la notte era ben notte senza la luna. Decise di aspettare le prime luci dell’alba per uscire e poi sorrise pensando che le “prime luci” erano state davvero “prime” chissà quanto tempo prima. Prese il tozzo di pane dal tavolo, diavolo se era duro, lo bagnò nell’acqua e iniziò a succhiarlo, solo poche lapidi ingiallite erano piantate nella sua bocca a testimoniare la sua passata giovinezza, il resto erano gengive indurite che, in un ultimo slancio di sopravvivenza, si erano reinventate timida dentiera per i pasti più modesti. Era ora di andare, prese la sua sacca e impugnò la maniglia della porta, la fece scivolare in un unico controllato gesto della mano e lì in quell’irripetibile momento si condensa tutto il mistero del mondo. Lì il creato si ferma, in quel piccolo nucleo di esistenza di colui che segue il proprio sentiero senza interrogarsi mai, senza scegliere mai e scegliendo sempre lo stesso, senza decidere mai avendo già deciso.
Passò dietro la casa di Nicola, poteva vedere dalla finestra socchiusa i mobili ancora imballati nella plastica, la moglie, Maria, non l’aveva mai tolta per paura di poterli rovinare e così accoglieva i suoi ospiti in questa casa perfettamente pulita, sempre in ordine, con le sedie e la credenza ancora imballate, ti diceva sempre la stessa cosa, anche a Totò era capitato di prendere il caffè da loro e lei ti diceva sempre la stessa cosa, che aveva paura di rovinare i mobili, poi con i bambini piccoli, ma anche quando divennero grandi, aveva paura e non la tolse mai. La luce era accesa nella stanza di Donna Lucia, intenta a preparare il caffè al marito. In verità il marito era morto tanti anni prima di una violenta crisi polmonare, ma lei dopo tanti anni di vita insieme non riusciva proprio a smettere di farlo, di alzarsi presto, prima dell’alba e preparare un bel caffè forte. Poi lo versava nella tazza, aggiungeva mezzo cucchiaio di zucchero lo girava e aspettava. Aspettava che arrivassero le lacrime a testimoniare tutto il suo dolore, spegneva il fuoco e tornava a letto. A sinistra il lampione ancora rotto, di nuovo a sinistra la discesa e la macelleria, i gatti e il rumore delle donnole sui tetti. A destra la statua e poi giù fino al campanile, i rintocchi, Totò cercò di contarli ma non ricordava bene i numeri, poi a sinistra dopo il roseto e poi ancora giù e dopo i gradini, il mare.
Totò alzò la testa e vide il cielo bianco e sapeva che sarebbe stata una giornata di vento calmo, con quella luce che banalizza i colori, che deride l’immortalità del creato cambiando e plasmando le sue forme. Prese la rete e la controllò, c’erano dei piccoli strappi e iniziò a ricucirli. Adorava il suo lavoro fin da quando era bambino: aiutare i pescatori con le reti, con la manutenzione delle barche, con lo scarico dei pesci era tutto ciò che aveva sempre fatto. Lo adorava. O almeno lo aveva sempre fatto. Soprattutto gli piaceva che quando qualcuno gli chiedeva: «Ma che mestiere fai?», e lui non riusciva mai a spiegarsi. Non è che fosse un pescatore, né un mozzo, né un capitano. Non apparteneva a nessuno, stava lì ad aiutare, non aveva amici né famiglia. Se un giorno improvvisamente gli fosse successo qualcosa, probabilmente pochi se ne sarebbero accorti e ancora meno se ne sarebbero occupati. Il mondo avrebbe continuato a girare e il sole a scaldare le pelli mature, come è sempre stato. «Ma che mestiere fai?». «Niente». «E allora che ci fai qui?». «Aiuto». «In che senso aiuti? Per chi lavori?». «Nessuno in particolare, mi pagano solo per quel che faccio, se lo faccio». «E ti basta per campare?». «Io non ho bisogno di nulla, mi serve solo aver qualcosa da mangiare la sera, il giusto per sopravvivere». «E non vorresti una bella casa? Una famiglia? Una moglie?». «Ce l’avevo una famiglia, ma è andata via». «Via dove?». «In mare».