Parigi, gli attentati e la democrazia imperfetta. Flavio Santi intervista Fabrizio Bajec.

parisrépubliqueFabrizio Bajec vive a Parigi e scrive in entrambe le lingue. Come poeta ha pubblicato Corpo nemico (Marcos y Marcos, 2004), Gli ultimi (Transeuropa, 2009), Entrare nel vuoto (Con-fine, 2011), e di recente La cura (Fermenti, 2015). È anche autore di testi teatrali rappresentati in Italia e all’estero (Rage, Teatro Nazionale di Bruxelles). Ha tradotto uno dei maggiori poeti viventi, il belga William Cliff (Il pane quotidiano, Edizioni Torino Poesia, 2008, Poesie scelte, Fermenti editrice/Fondazione Piazzolla, 2015).
Lo intervistiamo sui fatti di Parigi a qualche mese di distanza, per avere uno sguardo diverso, critico e tagliente.

F.S. Da quanto vivi a Parigi?
F.B. Dal giugno 2008. Un periodo abbastanza difficile per ricominciare praticamente da zero in un altro paese, sebbene fosse per metà il mio e nonostante conoscessi Parigi dall’infanzia, per esservi stato numerose volte, ospite di una nonna nel XIII arrondissement. Credo che il decesso di mia madre, nel 2005, abbia influito sulla mia destinazione, essendo la sua città natale. All’inizio esitavo tra Tolosa e Strasburgo, ma mi sono detto: cominciamo dove è più dura, poi semmai mi sposterò.
F.S. Dove vivi a Parigi?
F.B. Con mia moglie abitiamo da più di quattro anni nel XIV arrondissement, a sud della città, in un alloggio sociale dove l’affitto è basso per una città che dissangua la maggior parte degli inquilini. Sono molto affezionato a questo quartiere calmo, con dei cinema a due passi, una biblioteca accogliente e vie pedonali silenziose. Qui vivevano Georges Brassens, Alberto Giacometti, e Samuel Beckett.
F.S. Impressioni su Parigi prima del 13 novembre?
F.B. È una città che non accoglie a braccia aperte i forestieri, specie i primi anni. Inizialmente notavo uno spirito di competizione continua, un’esibizione del potere e del lusso. Ma anche una miseria imbarazzante, volontariamente non occultata, che convive con l’agiatezza e con tutto ciò che è superfluo. Io la vedevo un po’ come un grande museo, con mille cartelli che ti dicono: «non toccare». Più tardi, col tempo, si scoprono le cose che rassicurano. Un’intensa vita associativa, fatta di volontariato, la coscienza civile presente anche tra i più giovani, le numerose manifestazioni di protesta e solidarietà, la voglia di prender parte alla vita del proprio quartiere per migliorarla, pronunciarsi su ogni cosa, anche a sproposito. Poi per me qui ci sono le migliori librerie e una cucina variegata.
F.S.Adesso com’è la vita a Parigi?
F.B L’inquietudine è palpabile ovunque. Si cerca più che mai di capire cosa è successo e cosa potrebbe accadere di nuovo. I trasporti pubblici, specie la metro, hanno visto il loro afflusso calare del 10%, i ristoratori si lamentano dell’assenteismo o del muso lungo dei clienti. Manca la leggerezza di prima, anche le librerie sono semi-deserte. Ieri, davanti a uno scaffale, avevo un ragazzino accanto, che consultava il Corano, senza togliersi le cuffie dell’ipad, pregava a voce bassa. Io ero contento che fosse venuto lì per farlo discretamente.
F.S.Perché è successo di nuovo a Parigi?
F.B. Il governo francese ha una politica irresponsabile in Medio-Oriente e in Africa, o nessuna politica degna di questo nome. Solo interventi colonialistici. E c’è un grosso problema di integrazione sociale degli strati etnici più disagiati, che sfuggono al laicismo brandito come un vessillo dal governo e che vorrebbe tutti in ginocchio davanti alla Repubblica. Grava su questo paese una storia coloniale le cui ferite non sono state sanate, e nell’inconscio collettivo si ripetono vecchi rapporti di dominazione che possono azzerare l’identificazione dei più giovani, di origine maghrebina, con i simboli nazionali.
F.S. Ha ragione Michel Houellebecq?
F.B. Ho smesso di leggerlo dopo il terzo libro. I primi due erano tutt’altra cosa, si imponevano davvero sulla letteratura europea contemporanea. Come molti scrittori, è diventato la caricatura di sé stesso. Credo inoltre che abbia contribuito di recente ad alimentare le domande sbagliate, quelle che non dobbiamo porci, cioè se vogliamo il tipo di società descritta nel suo romanzo Sottomissione. Considerare l’Islam radicale una fatalità francese o europea è un approccio direi quasi fascista (di chi deve proteggersi dalle influenze esterne facendo di tutt’erba un fascio). Ma va bene con i tempi attuali: tra la radicalizzazione neo-conservatrice delle élites e la regressione fondamentalista dei dominati, che di spirituale non ha niente, somiglia piuttosto a un’operazione di marketing martirologica. Paradigma perfetto della pulsione di morte presente nel capitalismo.
F.S.Come giudichi la politica di Hollande?
F.B. Per riprendere quel che ha detto Houellebecq, e spezzando una lancia in suo favore stavolta: l’operato di Hollande e quello di Sarkozy sono fallimentari. Hanno obbedito a chi vende aerei da caccia e ad altri che avevano interessi a trattare con paesi ben poco democratici. I leader politici sono manovrati dalle élites industriali. È questa la nostra democrazia imperfetta. A livello interno, Hollande sta portando a termine un processo di metamorfosi social-democratica in atto dal 1983, con Mittérand e poi con Jospin, in linea con la politica tedesca alla Schröder. È una sorta di piano di sottomissione a un disegno statunitense (vecchio come il dopoguerra) cui la Germania si era già conformata. Ora il ministro francese dell’economia passa all’offensiva con una serie di pacchetti riformistici socialmente regressivi, all’insegna della modernizzazione digitale e della competitività. Il risultato è che siamo sorvegliati, veloci, e sempre più soli a doverci difendere. Hollande sta tentando di uscir fuori della costituzione, approfittando del momento propizio (lo stato di urgenza della sicurezza) per limitare ulteriormente le libertà del cittadino. È la famosa strategia dello shock, o della tensione, o potremmo anche chiamarla della distrazione (caccia mediatizzata ai terroristi, divisa in tappe o capitoli, per mettere in secondo piano certi accordi transnazionali o la violenza poliziesca sugli studenti, per esempio). Vorrei denunciare, a questo proposito, l’incursione sanguinosa della polizia negli anfiteatri di Paris 1, Tolbiac, con la scusa di sommosse inesistenti, e la repressione di un sit-in a Mezt, sempre contro la recente riforma del lavoro (ma la lista non è esaustiva). Applicare alla Francia una revisione profonda del codice del lavoro (come in Spagna) significa preparare il terreno per il Tafta, il trattato di scambio commerciale tra Europa e Stati Uniti, in seguito al quale i lavoratori saranno “usa e getta” e senza tutela sociale. Mi limito a questo aspetto di un piano pericoloso. È un momento storico capitale e un giorno potremo dire di averlo attraversato. La strategia del governo Hollande sembra insomma l’unico modo per soffocare l’ondata di protesta sociale in atto, dopo i licenziamenti del personale di Air France, le pene giudiziarie piovute su chi ha osato strappare le famose camicie bianche dei quadri superiori, o tenere in ostaggio per qualche ora i dirigenti di Goodyear. Chiediamoci il perché di quest’altra violenza disperata, o provocata.
F.S. Come ne usciremo (se ne usciremo…)?
F.B. Intanto bisogna ribadire al governo che i sindacalisti o gli attivisti della Cop21 non sono terroristi. Il terrorismo ci arriva anche per via dei nostri terminali elettronici. In questo senso costa poco, sebbene riceva i miliardi delle repubbliche petrolifere e abbia una sua produzione. Colpirlo economicamente non sembra abbastanza efficace ai nostri governanti; è anzi scomodo. Preferiscono le offensive aeree e lasciare ai Curdi il lavoro a terra, o ai ribelli della rivoluzione siriana, che hanno ingannato a suo tempo, sfruttandoli (penso in primis agli USA). Ora Bashar-el Assad non è più un problema prioritario. Quando (se) avranno finito con Daesh, lo faranno fuori come Gheddafi e Saddam Hussein, sempre che Putin sia d’accordo! Agire sotto l’egida dell’ONU, per questi signori, costituirebbe uno sforzo troppo oneroso, o una perdita di tempo. Il neo-liberalismo è anche questo: bisogna andare spediti per distruggere e ricostruire, ma so che il termine non piace in Italia, certi lo trovano ambiguo. Eppure è da questo regime che si dovrebbe uscire il prima possibile, malgrado la sua estrema plasticità. Penso spesso a una canzone di Bob Dylan, ripresa da Hendrix: «There must be some kind of way out of here, said the joker to the thief».