Edoardo Zuccato, Il dragomanno errante (quaderno di traduzioni)
di Fabrizio Bajec

il dragomanno errante
Sulle prime, il titolo può sembrare astruso, incomprensibile, e richiamare alcuni elementi della poesia di Antonio Riccardi o di quella guerriera, di Franco Buffoni, col quale Zuccato ha delle affinità in materia linguistica e traduttologica: la lingua inglese e, per esempio, il poeta da poco deceduto, Seamus Heaney (non presente in questa campionatura). Ma leggendo la poesia che funge da preambolo, tutto diventa chiaro. La metafora dell’interprete delle lingue arabe che va di ambasciata in ambasciata prestando servizio agli autori (i parlanti) incontra il neologismo cisdurre (portare a sé): quel che fa il traduttore nella sua lingua di appartenenza. Solo che Edoardo Zuccato ne ha due: l’italiano e il dialetto altomilanese. Ed è verso questi due sistemi linguistici che cercherà di traghettare, come Caronte le anime morte, i versi di autori per lo più anglofoni. Le versioni in italiano e altomilanese sono cinte da una prefazione in versi e da un congedo che è, a ben guardare, una delle migliori e più toccanti riuscite poetiche del nostro. La figura di Caronte (p. 9) aderisce perfettamente al mestiere di chi conduce la vita di un testo letterario verso la sua morte, in un’altra lingua. È una visione apparentemente pessimistica, ma in fondo realistica. Perché per quanto si facciano sforzi al fine di rendere gradevole il viaggio di queste anime, è verso la morte che andranno, verso una dimensione “altra” che non potrà che spegnere il testo di partenza. La traduzione è un gioco col morto, quindi un rischio permanente. Il traduttore rischia di diventare un becchino. Nella migliore ipotesi, è un angelo accompagnatore (pensiamo a W. Benjamin). E proprio in virtù di ciò possiamo considerare quest’attività coraggiosa. Per quanto si sia cercato di sistematizzarla e di farne una scienza, la traduzione letteraria rimarrà un’operazione che ha più dell’avventura che dell’intervento chirurgico. Troppi fattori in gioco, che riguardano direttamente la persona del traduttore – le sue debolezze e idiosincrasie – per poter operare con un margine di sicurezza e di calcolo prestabilito. Non a caso, Zuccato scrive in quarta di copertina che la traduzione ha intersecato il suo lavoro di poeta e di studioso di letteratura. C’è quindi qualcosa di profondamente emotivo in questa ricerca, che la apparenta alla scrittura creativa; non fosse che per il fatto che sono i poeti stranieri, con le loro poesie, a chiedere a Zuccato di essere tra-dotti. Non si spiegherebbe altrimenti il motivo di farlo in altomilanese e, in alcuni casi, contemporaneamente in italiano e altomilanese (si veda il bellissimo testo di Derek Walcott). È quasi il poeta straniero stesso a proporre a Zuccato le sue soluzioni. Perciò la campionatura che il cisduttore ha previsto per questo volume, la selezione tra le migliori prove degli ultimi venticinque anni a noi sembra rispondere a una domanda precisa: che cos’è la poesia?
Il percorso astorico (cronologico solo nel senso del lavoro fatto sui testi) sottopone al lettore dei veri e propri amori per testi che dimostrano ogni volta cosa fonda la poesia e cosa può fare questo genere. In un certo senso, tradurre Virgilio o un contemporaneo come Paul Muldoon, intervallati da un estratto di Romeo e Giulietta, è come dire: “Vedete, l’esistenza di questi versi si giustifica da sé e fonda immancabilmente ciò che mi nutre e mi spinge a trasporlo per me e per voi”.
La scelta di un Mallarmé inconsueto e graffiante, che comunica voltandosi indietro verso François Villon, interpella Zuccato poeta e lo elegge traduttore.
Riguardo poi alle sue scelte linguistiche, possiamo anche non aderire all’adattamento regionale e ultra-contemporaneo di una ballata medioevale, con riferimenti legati all’attualità, ma senza ombra di dubbio questo sforzo di traslazione del francese antico in varietà dialettale italiana non è solo un gioco. Quando Zuccato scrive in dialetto la sua poesia, egli è in contatto con un’oralità di un certo popolo che gli appare come la migliore lingua possibile per tradurre la ruvidezza, la barbarica e trasgressiva voce di Villon.
In poesia come in traduzione, vale per lui la medesima regola: egli ha a volte bisogno di un mezzo che lo faccia andare oltre la tradizione linguistico-letteraria canonizzabile. È una scelta di marginalità vincente, nella misura in cui rinnova le possibilità traduttologiche.
Per cui, i risultati più felici, a nostro avviso, rimarranno il testo di Walcott, le poesie di Hafez (probabilmente dall’inglese) e una bellissima lirica di Anne Sexton che riportiamo qui sotto, senza dimenticare Auden, e trascurando qualche ombra, come ad esempio sui pronomi, nel testo di Thomas Campion (p.21).
Più che mai, tradurre qui, specie se non si riportano a fronte gli originali, per motivi di spazio (ma i francesi fanno altrettanto per ideologia) significa mostrare a chi non comprende altre lingue cosa sia la letteratura e in che modo serva all’uomo.

QUANDO L’UOMO ENTRA NELLA DONNA

Quando l’uomo
entra nella donna
come l’onda scava la riva,
ripetutamente,
e la donna godendo apre la bocca
e i denti le luccicano
come un alfabeto,
il Logos appare mungendo una stella,
e l’uomo
dentro la donna
stringe un nodo
perché loro due mai più
si separino
e la donna si fa fiore
che inghiotte il suo gambo
e il Logos appare
e sguinzaglia i loro fiumi.

Quest’uomo e questa donna
con duplice fame
hanno tentato di spingersi oltre
la cortina di Dio, e ci sono
riusciti per un momento,
anche se Dio
nella Sua perversione
poi scioglie il nodo.

Edoardo Zuccato, Il dragomanno errante (quaderno di traduzioni), Atì editore, 2013.