Su Il fumo bianco di Renzo Paris
di Fabrizio Bajec
A distanza di quasi due anni dalla sua uscita, leggo finalmente questo secondo e significativo libro di poesia di Renzo Paris, opera che fa seguito a una delle più belle riuscite della poesia italiana degli anni ’90, Album di famiglia. Tanto che mi chiedo come sia possibile che le nuove generazioni di poeti e lettori non citino mai Paris poeta. Si parla del romanziere, si fa riferimento al biografo di Moravia, ma chi ricorda la leggerezza apollinairiana, il tono scanzonato e antilirico del cultore di Properzio e Catullo e le immagini fresche, genuine, quasi penniane, presenti anche in questa raccolta, come « il secchio del vino delle aurore » (p. 9)?
Paris ha una marcia in più rispetto alla poesia ingenua di Vivian Lamarque o di Claudio Damiani. La sua leggerezza stralunata, il suo post-modernismo di prima stagione sono sorretti da metafore più forti, da un veleno che intorbida la pozza d’acqua fresca degli altri due, bamboleggianti e meno sornioni.
Se Paris gioca, finisce per farsi male, e il soccorso che chiede ai lirici latini lo ottiene proprio quando non li invoca, quando non li cita. Con lui Roma ha il sapore malinconico delle deambulazioni di Patrizia Cavalli e Dario Bellezza, pesci fritti, gatti e mosconi, dettagli che loro coglievano e che sono comuni a quelli di Paris. Insieme a loro c’è anche Gozzano.
Si tratta di una poesia che non sopporta le teorie, perché calda, tutta in rotondità, sempre narrativa. Lo stesso Paris lo sa da sé : « Nessuna teoria può garantirmi » (p. 65). Allora cadono perché posticci, i paralleli tra la Marsica e l’India, o l’Africa, la Lapponia, l’Europa dell’Est. I discorsi sul pensiero neo-antico di Mario Perniola stanno a zero dentro ai versi di Paris, che di fatto si sfarinano se diventano un discorso. Questo miraggio della purezza etnica paesana (pasoliniana) che dall’Abbruzzo si rispecchia nelle nuove immigrazioni diventa pregnante solo nel momento in cui vince il ritratto puro e semplice, come a p. 98 (Sinti), ovvero quando prevale la poesia e non la volontà.
L’altro miracolo avviene quando l’antilirismo latino trascende non solo il bovarismo mitologico (il pensiero neo-antico in fondo è questo), ma anche quello generazionale (Castelporziano), per darsi come nuova elegia frontale (Non sono giovane né vecchio, p. 9). La vera Arcadia, insomma, sta nella scrittura, non nella vita.
Se infatti abbiamo avuto un Giuseppe Conte che negli anni ‘90 ha scelto il mito, sulle orme delle lezioni americane di Calvino, per uscire dall’impasse delle neoavanguardie, non si capisce perché Paris debba volontaristicamente fare altrettanto con i folletti abbruzzesi (teletrasportandoli) e l’etnicità delle minoranze, visto che la sua poesia è già etnica (si veda il paragone tra la lirica e il latino delle chiese della sua infanzia). E la sua latinità assunta e interiorizzata non soffre dei difetti di cucitura di Conte, a cui manca la verve di Whitman e il soffio di Shelley. Ciò che fa di Paris un poeta di primo piano oggi, con una raccolta più ampia rispetto a Album di famiglia, e dunque leggermente meno equilibrata (l’ultima sezione finlandese è più debole), rimane per me la vitalità e un’incoscienza niente affatto senile, bensì più verde di tanti nuovi autori.
Fabrizio Bajec
Il picchio rosso
Mi beccava l’orecchio canticchiando
quando sulla mia spalla amava riposare.
Il tempo lo passava facendo buchi
sotto il lettone dei miei genitori o
scassando la rete contro le zanzare
dalla grande cucina. Era ghiotto di ricotta
e di mosche. Un mattino in amore volò via
e sentendo il mio pianto accorato, giorni dopo
tornò per salutarmi. Era accompagnato
da un picchio femmina. Lo accarezzai,
arrampicandomi sul ramo. Cantò più forte
e volò via, inseguito dal suo bene.
Fabrizio Bajec
Renzo Paris, Il fumo bianco, Elliot, 2013, pp. 136, Euro 17,50
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