Sulla motivazione e l’angoscia
di Fabrizio Bajec

Lo si può affermare da subito, senza girarci troppo attorno: c’è una parola d’ordine che ricorre in tutti i discorsi sulla realizzazione personale nel nostro sistema. La sentiamo a scuola, durante i colloqui di lavoro, in azienda, nelle serate da amici, e perfino all’interno della coppia.
Io stesso l’ho banalmente ripetuta per iscrivere la mia amata a un ritiro spirituale (come se anche lì ce ne volesse, di motivazione, come se la cosa non andasse da sé).
Mai quanto oggigiorno ci avevano chiesto di essere motivati e professionali in ogni ambito.
Il discorso ufficiale pretende oltretutto che senza motivazione non avremmo lo statuto che crediamo di possedere; è semplice, non lo meriteremmo neppure.
Non vi sarebbero allora specialisti (benvenuti nell’era dell’iper-specializzazione e del trionfo del settorialismo) senza questa sacro-santa qualità.
Oggi la motivazione di un essere umano si misura dalla sua capacità di crearsi una rete di conoscienze “utili”, un vivaio di ”amici” a chi chiedere attenzione e favori da ricambiare al momento venuto.
Il modello è quello delle reti virtuali che raddoppiano in potenza i legami sociali, la lista di contatti effettivi, persone raggiungibili e frequentabili.
In mancanza di ciò, il potere d’azione di un individuo risulterebbe fortemente limitato. Secondo questa legge, del resto, sarebbe anche inutile aspirare a qualcosa di meglio, essere ingegnosi, avere le migliori competenze e talenti.
Non è un caso che gli americani ne abbiano fatto una teoria, la teoria dei sei gradi di conoscenza. Il che significa che ciascuno di noi sarebbe a sei gradi di distanza da ogni essere umano, dal più celebre al meno conosciuto. Sei persone ci separano dall’individuo che bisognerebbe assolutamente conoscere per avere un’opportunità.
Secondo quest’assurda teoria, io stesso sarei a sei gradi di distanza da Barack Obama. E dunque, dovrei solo fare la conoscenza di queste sei persone che mi separano dal presidente degli Stati Uniti, e la scommessa sarebbe vinta.
Oggi siamo passati a cinque (grazie a social networks online).
Che nessuno me ne voglia, se preferisco parlare qui di desiderio piuttosto che di motivazione.
Perché alcuni soggetti hanno un desiderio più forte di altri? Energia sufficiente per passare all’azione necessaria e spostare il mondo intero per di raggiungere l’obiettivo, mentre altri fanno talmente fatica a dare ad intendere ciò che vogliono e a essere convincenti?
Che ci sia – al di là di tutte le teorie sul potenziale umano da sviluppare – un semplice problema di ignoranza?
Potremmo pensare che la seconda categoria di individui, i demotivati, non conosce ancora bene se stessa, che questi poveretti non credano abbastanza nel loro potere. E le ragioni sono multiple; non vale la pena di interrogare il loro passato, i loro condizionamenti educativi, le castrazioni parentali più o meno pronunciate.
Tuttavia, non posso ignorare la recente testimonianza di una filosofa italiana, impiantata a Parigi da tempi immemorabili.
Michela Marzano non ha problemi a rivelare la propria anoressia, oggi superata, e a trovare un legame con la  sua sottomissione infantile.
Nel suo caso, nessuna crisi adolescenziale, ma un rispetto, una bontà obbligatoria, richiesta da genitori autoritari, i quali le domandavano inoltre l’eccellenza scolastica.
Fu dunque una brava bambina, poi adolescente senza rivolta, lontana da qualsiasi condotta problematica o sospetta, unicamente intenta a non deludere mai le aspettative paterne, per un po’ di amore.
Risultato: il conflitto prende più tardi la forma di un disturbo alimentare maggiore; la giovane donna non riconosce più la propria volontà.
Arriva comunque a farsi strada nell’ambiente accademico francese e a pubblicare alcuni testi filosofici.
Il prezzo? Vent’anni di psicanalisi e numerose delusioni affettive.
Questa donna non manca di desiderio, ma impiega un tempo irragionevole a scoprire quale è il suo.
Altri, al suo posto, neppure ci riescono.
La nostra società ci dice – e tutti gli psicoterapeuti si uniscono per proclamare forte e chiaro la medesima cosa: senza desiderio, c’è solo la morte.
Per funzionare in società un individuo ha bisogno di avere dei desideri e di soddisfarli. Meglio ancora, ci si aspetta che certi desideri diventino il più rapidamente possibile degli obbiettivi precisi.
E’ la gloria dei bisogni. L’insoddisfazione è giudicata intollerabile. Si parla, a giusto titolo,  dell’era del godimento.
Certo, occorrerebbe fare le giuste distinzioni: da un lato c’è il desiderio sano, la motivazione, la convinzione, e dall’altro la compulsione a soddisfare qualunque mancanza.
Ma io ritengo che la questione si ponga negli stessi termini.
Che fare dei nostri famosi demotivati ? Che posto occuperanno nella nostra società di battitori liberi, guerrieri  e maghi della rete?
Occorrerebbe mandarli tutti da un coach, da un allenatore che permetterà loro di mettere in circolo abbastanza energia da realizzare almeno il primo obbiettivo fissato sulla tabella di marcia?
E poi? Un terapeuta concluderebbe l’affare?
Ricapitoliamo la lezione appresa: oggi un avvocato senza network né forte motivazione non è un avvocato, un artista senza agenda piena di numeri e referenze sicure non è un artista; un uomo o una donna che non ha la forza di inviare centinaia di curriculum vitae (che dico, nemmeno trenta!), non sarà mai un valido professionista.
Infine, un essere umano sprovvisto di tenacia per intrattenere una certa quantità di rapporti sociali, non può essere davvero interessante, né del tutto affabile.
Volendo difendere qui coloro che non possono in alcun modo giurare su un desiderio netto e chiaro, tornerò una volta di più su un esempio americano (l’empowerment spiegato ai neofiti).
Un film molto recente, The grey full, ci mostra un uomo perso in mezzo ai ghiacci di una terra selvaggia, alle prese coi lupi famelici.
Sarà il suo ultimo combattimento; il padre gli ha insegnato che non c’è battaglia più importante dell’ultima: «Oggi, vivere, morire, tutto si decide ogni volta».
Alcuni dei suoi compagni si sono lasciati morire. Lo scoraggiamento ha avuto la meglio.
Lui è il più motivato. E’ una pura questione di sopravvivenza. Per sopravvivere, c’è bisogno del desiderio di vita.
Accerchiato dai lupi, il nostro eroe si batterà disperatamente. Il risultato è molto meno importante. Finché c’è vita, occorre battersi. Ecco il messaggio.
E i miei cari demotivati?
Sono forse destinati a riempire lo stomaco dei lupi? A darsi in pasto agli squali che li attendono in città?
A Treblinka, a Belsec, era lo stesso; solo gli esseri animati dalla fiducia evitavano di soccombere alla fatica.
Si dice spesso che i geni possono fare a meno della motivazione, di tutti i curricula da inviare, delle serate importanti, da non mancare, per aggiungere un altro numero fondamentale (o una sedicente amicizia tempestiva).
No. Neanche i geni potrebbero permetterselo oggi. E’ il messaggio della realtà. Nessuna finzione, stavolta, nessun mistero. Nessuno vi regalerà niente.
Cosa proponete in termini di motivazione?
Mostratemi il vostro desiderio, la fede irriducibile nel vostro progetto.
Avete un progetto?
Per quel che mi riguarda, dico solo di aver incontrato individui molto competenti, che incarnavano perfettamente il loro statuto. Avevo di fronte a me dei veri specialisti, veri artisti, che sfortunatamente – ognuno per motivi diversi – non avevano sufficiente desiderio di brillare per tutti.
Li ho riconosciuti, amati per ciò che erano. Miei simili.
E se riuscissero solo a non provare invidia, li amerei maggiormente.
Una volta un regista mi disse di distinguere un’invidia sana da un’altra malsana, pericolosa, oltretutto.
Vi era dunque un principio di competizione, assolutamente naturale e buono, e poi la cattiveria, la maldicenza.
A me ricorda tanto la questione dello stress. E arrivo alla fine del mio ragionamento.
Nessuna separazione tra i due. Non c’è uno stress buono, produttivo,  solo effetti alterni e individui che funzionano altrimenti.
Non credo di contraddirmi, se preferisco un’altra distinzione: la voglia di vincere la corsa è una cosa, la pressione sociale è un’altra.
L’angoscia arriva quando non si è più capaci di separarle.
La crisi economica non ci aiuta a fare chiarezza.
Lisa Miller, giornalista newyorkese, ritiene che il decennio del Prozac si è concluso. Dalla depressione in fase di opulenza (gli anni ’90), si passa ora alla stagione dello Xanax, il miglior amico di tutti coloro che non sanno cosa li aspetta.
Angoscia, urgenza, formazione, prestazione.
Io continuo a credere che ci sia posto per tutti nella federazione autonoma delle tribù: per Steve Jobs, e per il mio amico Robert, poeta e anarchico dalla mobilità ridotta.
(da I vespri)