Ho incontrato Moresco, mio padre e fratello
di Emanuele Tonon

E’ successo così: che ho deciso di mandare il mio libro alla Isbn – libro che stava da quattro anni, fatto e finito, nel mio hard disk -, al termine della lettura di “Lettere a Nessuno” di Antonio

Moresco e Tonon

Moresco e Tonon

Moresco. Mi era capitato di piangere a queste parole: “Scriverò lì quell’ultima cosa che ho in mente, se non crepo prima. Poi basta. Nonostante tutto, in questa disperazione e in questo orrore riesco ancora a incontrare di tanto in tanto dei piccoli momenti di gioia, che nessuno mi può rubare”. Era un libro, il mio, di cui provavo vergogna. Non avevo il coraggio di mandarlo a qualche casa editrice. Pensavo fosse frutto di una malattia, una cosa da nascondere, da trattare con antivirali, antipsicotici,  pesticidi,  iniezione letale. La notte stessa, dopo quelle lacrime, mandai il mio testo in formato elettronico alla Isbn.

E’ successo,  in un altro tempo, così: che sono andato a Milano. Giuseppe Genna si era speso tanto per il mio libro, offrendosi anche per  presentarlo. Una chiacchierata alla  libreria Centofiori, organizzata dalla mia casa editrice, a nove mesi dall’uscita. Cose che succedono, queste, agli scrittori contadini: a pregare nelle chiesette di campagna non si hanno i santi che si hanno in Duomo a Milano. Ma nove mesi sono il tempo per arrivare al parto: quindi, ci può stare.  Poi, il giorno dopo, ero stato invitato al Festival di Lissone, dove ho chiacchierato con Giancarlo Onorato e Giulio Mozzi (avrei dovuto chiacchierare con Luca Doninelli che invece aveva declinato all’ultimo momento. Non so il perché).

Mi ero sentito telefonicamente con Antonio Moresco, scrittore che da molto amo, i miei amici lo sanno. E lo sapeva Antonio Prudenzano che, a chiusura di una sua lunga intervista a Moresco, mi aveva chiesto di aggiungere una mia domanda, quasi a sottolineare una mia discepolanza. Moresco, incuriosito dalla domanda,  aveva chiesto di poter avere il mio libro. Lettolo, mi fece sapere tramite un mio amico conosciuto su Facebook, Ciro Carlo Fico, attore che ha portato magistralmente in teatro i “Canti del Caos”, che avrebbe avuto piacere ad incontrarmi, in quel di Milano. Ciro mi diede il numero di telefono di Moresco.  Lo chiamai, lasciandogli un messaggio in segreteria. Mi richiamò subito. Fissammo l’incontro all’ora di pranzo, in concomitanza con il giorno della presentazione con Genna.  Non ero teso e non ero sorpreso. Ero solo stanco e  quasi felice.

Sono arrivato in tram, vicino al negozio di dischi Mariposa. Mi sono fatto un giro nell’edicola di fronte a Mariposa. Ho comprato un fumetto nuovo e sconosciuto, “Il Morto”, una di quelle cose che mi fanno impazzire, nella loro ingenuità, in quel loro essere “cattiva letteratura”, come direbbe qualcuno. Ho sempre amato la “cattiva letteratura”,  non ci posso fare nulla. Mi sono bevuto una birra in un bar poco distante, leggendo il fumetto (era segno, forse, quel fumetto, proprio nel titolo, di quello che sono diventato).  Moresco è arrivato puntualissimo, ci siamo abbracciati e abbiamo preso a camminare.  Indossava il giubbottino di jeans che gli avevo visto addosso in molte foto.

Prima di arrivare al ristorante vicino a casa sua, abbiamo parlato delle presentazioni che avrei fatto in quei due giorni, quella della sera con Giuseppe Genna e quella del giorno dopo a Lissone. Quando nomino Genna mi dice di salutarglielo e di dirgli che gli vuole bene. Me lo ripeterà altre tre volte. Abbiamo mangiato un antipasto di crostini ai funghi. Poi io un piatto di gnocchi, lui una pasta. Abbiamo bevuto del vino bianco. Gli avevo chiesto di poter stare spalle al muro. Mi dice che anche a lui piace stare così. Però aveva voluto cedermi il posto.

Abbiamo mangiato e parlato. E’ strano stare qui con te a parlare, penso tra una forchettata e l’altra, e forse è il compimento rituale di un passaggio necessario, non il coronamento di un sogno inzuppato nella letteratura ma un attraversamento, continuo a pensare, con lo stomaco chiuso che da vent’anni mi ritrovo, che mi costringe a questa magrezza. Ha voluto offrire lui il pranzo, rimandando a una sua eventuale salita in Friuli la mia offerta.

Siamo usciti, abbiamo ancora camminato. Siamo entrati  nella grande serie di condomini popolari, dove abita. Io mi sono fumato le mie due sigarette. Siamo entrati nel piccolo ascensore. Salendo in quella ristrettezza di spazio  guardo la barba bianca di Moresco.

Penso se riuscirò ad averla anche io così bianca, se vivrò abbastanza per averla così. Entriamo nella mansarda-studio, dove finalmente, mi dice Moresco, posso aprire la finestra senza vedere un muro davanti. Solo libri ordinatissimi in libreria a parete, quelli salvati da vendite per mancanza di soldi, mi dice. Libri che guardiamo, per un po’, che estraiamo, che sfogliamo. E per un po’ tracciamo una bibliografia del suo tempo e del mio. Ci sediamo. Mi lascia fumare che tanto è tutto spalancato, mi dice, non ti preoccupare, mi dice.

Di cosa parliamo? Mi chiede soprattutto di quando ero un frate francescano, della mia vita in convento. Di rimando io gli chiedo della sua vita in seminario, degli anni da ragazzino che ha travasato ne “Gli esordi”. Due universi: la mia fede di adolescente, ventenne rinsecchito in un saio per troppa disperazione e la sua di ragazzino mandato a studiare per povertà in seminario. Io, poi,  alla sua età nell’abisso della fede, lui nell’abisso dell’ideologia come fede. Parliamo della sua Milano, di quei condomini decrepiti. Ci sono sprazzi di luce che entra nella mansarda, poi rannuvola, poi torna la luce, poi piove, poi torna la luce.

Ci guardiamo molto, penso che è mio padre, a volte, a volte che è mio fratello maggiore. Parliamo ancora di letteratura, senza l’enfasi allucinata che qualcuno si aspettava, chiedendomi di questo incontro. Tutto a voce bassa, siamo campioni di silenzio, io e Moresco. Non davamo fastidio nemmeno agli uccelli. Parliamo del suo ultimo libro. Parliamo del mio libro. Gli chiedo del suo prossimo libro e mi confessa il timore di non riuscire a terminarlo. Gli chiedo se posso scattare qualche foto e mi dice che sì, certo che posso. Ruoto il display della mia digitale e scatto qualche foto con la vicinanza imposta dalla lunghezza del mio braccio.

Moresco nella sua manasarda studio di Milano

Moresco nella sua manasarda studio di Milano

Poi voglio fotografarlo vicino al letto singolo. Ho passato anni anche io così, col letto singolo a tre passi dalla scrivania. Non riuscivo a dormire in un letto matrimoniale, abituato com’ero all’essenziale nudità di una cella di convento. Ora ho imparato a farlo, come per un’imposizione della carne che invecchia e cerca continuamente consolazioni. Era come un vedermi nel futuro, lì, a Milano, con la barba imbiancata, a guardare il letto singolo di Moresco, in un futuro che mi riportava a quello che ero stato e che non sono più. In una foto finge di dormire,  Moresco. Chiude gli occhi. E io lo immagino nell’altro mondo, quello da dove arriva quando prende a scrivere le cose che scrive. E immagino ancora me che scrivo le cose che scrivo venendo da un altro mondo. Chissà se ci siamo mai incontrati, in quell’altro mondo, penso. Gli chiedo di scrivermi qualcosa sul Moleskine. Lo fa. E sono parole segrete, formula magica per raggiungere una coerenza radicale e forse impossibile nella condizione umana. Sono un salmo per non mollare almeno la tensione a quella coerenza inumana.

Sono passate tre ore e mezza di parole dette a bassa voce, mimiche rallentate. Io che immagino la sua vita mentre lo guardo e guardo la geografia del suo mondo. Io che immagino, ora, mentre scrivo, Antonio che immagina la mia vita in un’altra geografia. Usciamo, mi racconta della vicina novantatreenne che d’estate gira in vestaglia trasparente per casa. Mi accompagna verso il tram. Prende a piovere nuovamente. Apre l’ombrello e stiamo lì qualche minuto a parlare ancora più vicini. Arriva il mio numero. Ci abbracciamo, sfreghiamo le nostre barbe l’una contro l’altra. Sono suo figlio, suo fratello, un amico, uno sconosciuto. Salgo sul tram. Scendo che piove ancora. Ho ancora cinque minuti a piedi per arrivare all’albergo. M’inzuppo. Manca un’ora all’incontro con Giuseppe Genna. Mi cambio veloce e parto. Ha smesso di povere.

Passo sotto la redazione di Isbn. Mi chiedono dell’incontro,  io parlo proprio come uno che viene da un altro mondo. Non so se era felicità, la mia, ma sicuramente era qualcosa che le assomiglia. Dico, sorridendo, che è stato come incontrare la donna della mia vita, quella che in realtà non ho mai conosciuto. Che mi sono illuso di conoscere, che ho smesso di desiderare nell’ampio letto dove ora sudo, sempre a tre passi dalla scrivania. Arriviamo alla libreria Centofiori. Giuseppe Genna è lì nel bar vicino che beve una birra. Ci abbracciamo,  gli porto i saluti di Antonio Moresco. Genna sta bevendo una birra. E’ la seconda volta che lo vedo. Ho un rinnovato senso di quella cosa che assomiglia alla felicità. Un altro padre, un altro fratello maggiore, un altro amico, un altro sconosciuto, penso.

Mentre mi parla e prende a gesticolare come già lo ho visto fare, sento una dolcezza spaventosa e vorrei baciarlo. Penso a tutto l’incrociarsi di esistenze, a me che a ventisei  anni leggo “Assalti a un tempo devastato e vile”, appena uscito dal convento, e faccio mia Maura e tutto quell’altro mondo raccontato da Genna. Penso a tutta quella mia quasi felicità che va a sbattere sulla tristezza che sento vibrare nel corpo Genna. Bevo anche io una birra e ci alziamo. Fuori della libreria Centofiori incontro per la prima volta Mario De Santis che di lì a poco scriverà la più densa recensione al mio libro. Entro in libreria. Giuseppe è già seduto. Mi siedo anche io.

Di lì a pochissimo la mia vita non sarà più la stessa. Io smetterò di essere quell’io che ero lì, seduto, a fianco di Giuseppe. Di lì a poco la mia amatissima madre, Enza, sparirà, all’improvviso. Ha aspettato che tornassi a casa, la mia mamma, prima di svuotare di sé la casa dove ora scrivo, definitivamente solo. Non ho più bisogno di andare e venire dall’altro mondo a questo. Questo ora è l’altro mondo e qui ho stabile dimora. Ecco, vorrei tornare lì, nella mansarda di Antonio Moresco, a fianco di Giuseppe Genna. E restare lì per sempre, in quella approssimazione di felicità.

tratto da: Affaritaliani.it, mercoledì 28 luglio 2010