Marinella
di Elena Mearini

Marinella, il suo nome sta dentro una celebre canzone di Fabrizio De Andrè. La vidi appoggiata al muro della cascina in cui viveva. In piedi, scivolata in un fiume senza nome, ma ancora capace di reggersi in verticale, tenuta alla terra per le estremità dei piedi. Calzava sandali di cuoio, il tallone nudo e un pollice in affaccio. Era autunno, pioveva un umido che da lì a breve si sarebbe fatto freddo da cappotto. Fatto curioso, allacciare il passo dentro l’estate. Restare indietro di una stagione solo nella parte bassa del corpo. Una gonna corta, le gambe scoperte, quasi niente ai piedi. E sopra invece la copriva il vantaggio di un dolcevita, la rincorsa di una giaccavento. Dai fianchi in su Marinella si buttava in avanti, anticipava l’inverno. Già preparata allo scambio tra il vecchio e il nuovo tempo. Capitai nel suo paese con i miei nonni, cercavamo una casa in affitto per l’intero anno, dove passare festività e vacanze. Voldomino, una piccola provincia sulle alture di Luino. Luogo dove la pietra vinceva sul cemento, gli anziani tiravano la carta buona col sorso di vino giusto. E i ragazzini spendevano il tempo a giro di pedali e corse giù al torrente. Fu facile stringere amicizia presto, imparare il filo rosso che univa tutti quanti i nomi. E scegliere proprio quell’appartamento al secondo piano, nello stesso cortile di Marinella. Era bello guardarla, la mattina. Io affacciata al balcone, appena uscita dal sonno. Lei segnata in faccia dalla cicatrice di chi non chiude occhio e si sfascia i muscoli della faccia, nello sforzo di calare le palpebre. Accendeva sigarette anzichè parlare, il suo dire di giorno era risucchio di tabacco tra le labbra. Poppata solitaria alla ricerca di una goccia di latte, di un residuo di madre, nel bacio secco della nicotina. La sua era voce notturna, guaito strisciato contro la buccia d’arancia dell’intonaco bianco, urlo strofinato ai muri, screpolato fino all’osso nel tentativo di prendere fuoco. Di notte Marinella gridava un canto, voleva accendersi nel buio, essere luce quando tutti spengono le lampadine e staccano la schiarita. Allora lei cominciava la sua resistenza. Apriva la porta di casa, in mano una bottiglia di birra puntata al cielo, lancia pronta a infilzare le cosce degli angeli, ad arrostirne la presunta grazia. Piume colorate attorno al collo, danzava la volontà di un cigno selvaggio, il suo diritto a sollevare il collo fino al ballatoio delle bestie addomesticate. Si guadagnava il centro del cortile, da abusiva otteneva domicilio di un tombino. E lì prendeva a danzare una bellezza furiosa e disperata. Il corpo scosso da un sisma ripetuto e breve, sonaglio di serpente dentro le anche, incantava gli umori della notte, il sudore della luna. Senza mai uscire dal contorno del suo tombino, nella reclusione di una ruggine quadrata, Marinella toccava la libertà. All’ora tardissima del sonno sodo, lei ci spaccava i gusci per morderci i sogni. Noi tutti uscivamo a vedere. Finestre, balconi. Di colpo nelle case affacciate al cortile spiccava il giorno. Col sole illecito di Marinella.

Ma alla gente non piaceva spartire la propria razione di sogni. Nessuno disposto ad accettare una crepa aperta nel guscio liscio e perfetto del sonno. Tutti parevano gelosi di un piatto da gustare in solitudine. La fame di una pazza è fatto che non ci riguarda. Sembrava questo il loro pensiero, quando a imposte chiuse, imprecavano contro Marinella la matta, Marinella l’ubriacona, Marinella preghiamo Dio che se la riprenda su nel cielo. E Marinella convinta a terra. Viva e forte nel suo danzare. Dopo in silenzio però, diminuita di gesti, azzerata di voce. Nel rispetto del digiuno imposto. Ma mai stanca di aspettare il boccone, il tozzo fumante di qualche sogno. Spiavo di nascosto la sua speranza. Da dietro le persiane della camera. La vedevo continuare. Muovere l’ombra di una danza, sopra l’occhio spalancato della fogna. L’unico che restava aperto. Il solo che restava a guardare. Gli adulti non volevano che noi bambini ci fermassimo a parlare con lei. Se ce la fossimo trovata davanti, bisognava fare il giro largo, segnare arco teso a terra. Veniva così impartita la prima nozione di guerra. Individuare il nemico e disporsi all’attacco. Pronti a scagliare la freccia. Senza capire il perchè del nemico né il motivo dell’attacco. Quando Marinella capitava accanto a noi, o noi accanto a lei, suo primo pensiero era correre in casa, prendere la ciotola di caramelle e invitarci a scegliere quella che più ci andava. Oppure tutte. Tutte quante le caramelle assieme. A lei non importava restare con un vuoto in mano. A reggere quello ci avrebbe pensato lo spessore dei calli. Il durone dell’abitudine. Le bastava stare con noi. Esserci. Compresa e inclusa nel diritto di esistere. Anche da matta, anche da ubriaca. Anche da tutto ciò che sta prima, nel mezzo e dopo le due categorie. Esserci da Marinella, insomma. Tutto qua. Questo le sarebbe bastato. Nemmeno pretendeva di morderli i nostri sogni. In quegli attimi l’avrebbe saziata uno stare ferma. Un passo da noi. A contemplare il miracolo della sua mentina sciolta sotto le nostre lingue. Considerare nemico una donna così, è atto che di vergogna abbonda. Marcare ai suoi piedi un segno di guerra, è atto che nella vergogna affonda. E io ancora oggi trattengo il fiato per non affogarci dentro, quando ripenso ai miei rifiuti di bambina obbediente. Davanti alle mentine di Marinella. Che ora forse starà danzando, dentro la sua storia vera. Sopra un cielo che mi auguro sia più grande e accogliente di un tombino.