Briciola
di Elena Mearini

Ho un affondo dentro gli occhi. L’intera flotta di luce colpita dal cannone solitario di una mattina lontana. Accadde quindici anni fa. Avevo venticinque anni e la voglia di rubare tutte le facce del mondo. Volevo stampare popoli interi su carta baritata, appendere sudari di corpi sconosciuti alle pareti, salutare appena sveglio la mia collezione di Cristi tolti all’anagrafe del cielo. Cercavo figli dalle croci nascoste, quelli scartati dalla briscola di Dio. Tipo il barbone che scambia la cenere di una Marlboro per incenso di chiesa, e si fuma a morte la sua salvezza. Oppure lo svitato da metropolitana, quello fissato al chiodo di una canzone da piaga fissa nella gola. Giravo per le strade di Milano, il passo spudorato di chi vuole cacciarsi nelle case degli altri senza invito. A capofitto d’occhi entravo nelle stanze dei volti, toccavo le finestre degli sguardi con  dita sporche di sogni. Lasciavo impronte tra i battiti delle palpebre, ad ogni scatto di Laika rendevo eterna la mia manata. La camera oscura mi sviluppava i palmi. Guardavo i negativi e selezionavo le righe della sorte. Il ritratto di Lena fu il mio segno migliore. Una linea dell’amore in quadricromia.
Ti chiamavo Briciola, eri la promessa del mio pane quotidiano. Neanche un grammo di farina e già con te stavo sazio.
Suoni un flauto di plastica, con le dita tamponi l’emorragia del suono che scappa dai buchi. Hai talento per la cura, usi le note come punti di sutura e la cicatrice finisce in musica. Te ne stai seduta sul piazzale della stazione, i piedi chiusi nel cuoio, sandali aperti e alluci al cielo, perchè dall’alto cascano i grattacapi degli angeli e tu ne acchiappi le strofe. Il ritmo dei guai celesti ti scende nel tallone, batti pianto d’ala rotta sul selciato.
Briciola, dammi tre quarti del tuo viso. La porzione rimasta offrila al sole, che da sazio gli s’allarga il cuore e mi butta in terra l’ombra giusta.
Io ti chiedo di piegare la testa e tu ruoti gli occhi a giro di giostra. Poi smetti la musica e mi attacchi addosso la parola, la tua voce è fiaba adesiva.Ti guardo illustrato, i sette nani sopra le braccia e Biancaneve stampata in petto. Parli come una bambina, dieci anni sulla lingua e quasi venti cacciati in tasca. Chiusi assieme al centesimo della moneta, alla promessa di un panino. Fuori di bocca soltanto l’infanzia, gli altri domani in pasto ai calzoni. Perché l’innocenza merita aria, l’ora libera in mezzo al cortile. I pensieri adulti se ne stiano in cella, e vadano pure a farsi isolare.
Un po’ più a destra, Briciola, dove il rasoio del sole sbarba l’ombra. Perfetto, non ti muovere. Io scatto e tu parli.

Lo so cosa tieni attaccato al collo, quella scatola nera è come il forziere che sta in fondo al mare. Il bauletto che incanta il pirata, quello ti tieni al collo. Vuoi difendere il tuo tesoro dall’attacco del vascello. Dimmi, com’è stato scendere tanto in basso? Pesava tanto il mare sopra la testa? Lo so che non è stato facile, convincere il corallo a levarsi dalla sua poltrona di alghe e la stella marina a lasciare il suo materasso di conchiglie. Del resto, io li posso capire. Là sotto non vedono il cielo, possono soltanto dormire e provare a cercarlo, dentro al sogno intendo dire. Provarci così, a cercare il cielo. Hai avuto coraggio, un leone dentro il cuore che ti ha spinto giù, a tante miglia d’acqua dalla terra. Così tanto in fondo, fino al sonno dei pesci e allo sbadiglio del forziere. Perchè lui, il tuo tesoro intendo dire, lui si è svegliato subito quando ti ha visto. E poi ti si è messo al collo per risalire, come il bambino che si attacca al seno della mamma per crescere. Succhia latte e sale su, aumenta di statura e diventa grande, sì. Alto più del sole, sedici anni  e la spalla già supera il cielo. La scatola nera che porti al collo è il tuo bambino, io lo so. Però non uno uguale a tutti gli altri, lui il latte non lo vuole. E’ ghiotto di volti,la sua poppata è fatta di sguardi. Io lo so che il tuo bambino mangia gli occhi della gente.

Parlò così Lena, quella briciola di donna che mi si conficcò tra i denti nel mezzo dei miei vent’anni. Provai a rimuoverla più volte, impugnai lo stecco di altri amori e fregai forte sotto il molare. Ma Lena mi restò in bocca, lei non se ne volle andare. Briciola contro la lingua a ricordare una fame eterna.
Aveva ragione, la mia Laika era forziere rubato al mare, figlio al collo che mangia occhi. E io vivevo da uomo criminale, un padre che insegna al figlio il mestiere di rubare. Briciola me lo fece capire, con il libro della sua favola scaraventato contro la mia ambizione. Vangelo troppo pesante da reggere, per un leggio che volta le spalle all’altare.
Più volte mi domandai se Briciola non fosse caduta dalla tavola del Signore, dall’avanzo del suo morso alla supplica della mia fame. Perchè pure con tutti quei chili d’occhi ingoiati, io mi sono sempre sentito la pancia vuota e lo stomaco cieco. Vedevo fame, sempre e soltanto una fame nera. Ovunque preso a scattare foto, dentro la furia d’ingoiare volti, non mi accorgevo nemmeno che differenza di sapore ci fosse, tra il colore diverso di due sguardi. Celeste o marrone per me faceva lo stesso, mandavo giù l’indistinto. Una pappa che frullava tutto e salvava il nulla.
Il nulla, unico superstite rimasto in pancia. Scappato dal ventre per solitudine. Venuto agli occhi per essere visto.
Me lo trovai sotto le palpebre, arrivò di mattina. Carico di fame nera, mi uccise gli occhi. Un solo morso e fece fuori tutta la luce.
Collasso alla retina. Cecità irreversibile.
Da quel giorno smisi con i furti e le abbuffate. Calai di peso ma non cambiai di taglia. Scelsi di tenere gli stessi abiti. Con una misura in più addosso, imparai che oltre a me potevano starci pure gli altri. Dentro al girovita del mio calzone.
Basta derubare le facce, oggi non m’interessa più il furtarello degli sguardi e la mangiata illecita. Mi sfamo con un fianco a fianco che sta alla legge. Passo i pomeriggi seduto sul piazzale della stazione, in quell’angolo che fu della mia Lena. Attendo che qualcuno si offra  volontario, faccia avanti gli occhi e mi metta sul piatto il viso. Allora io mi ci accosto, piano. E lo assaggio con le dita. Una Briciola alla volta, ne traduco il gusto in suono.