Antò
di Elena Mearini

L’ho scoperto per caso. Io calata nel mezzo dell’infanzia, tirata dentro nel pozzo di un corpo che già gridava alla luna, lui seduto sopra il molo di Marina Grande, buttato fuori dalla normale andatura del tempo. Guardava il mare, si credeva centenario ma i suoi anni non arrivavano a toccare la metà di un secolo. Le guance d’anguria spaccata nel mezzo, negli occhi la tempesta di semi neri, succhiati tra i denti e sputati giù ai piedi. Si chiamava Antonio, ma per tutti era Antò, pure nel nome la sua fuga franava, si troncava la smania di scappare lontano. Voleva tornare alla terra che un giorno gli diede l’amore, quella Spagna calda di zuppa e pesce affogato nel pane. Al petto teneva una rosa fatta di stoffa, i petali sgualciti e un rosso colpito a frusta. Era per lui riassunto di baci, concentrato di labbra spremute al ricordo. Le labbra calde della sua Dolores, donna guardata poche volte e vista per la vita intera. Mi raccontava sempre la stessa storia. Usava parole prese a prestito dal mare, noleggiate ai fondali e adoperate in superficie. Dal primo strato di pelle gli usciva la voce, quando descriveva Dolores pelle di corallo, bocca di conchiglia, anguilla nei fianchi, ostrica aperta il suo occhio sveglio. Diceva di averla incontrata a Barcellona, lei capace di aggiustare le storte del cielo, buona a raddrizzare il chiodo alle stelle. Quando la conobbe gli si scaricò a terra tutto il peso desolato di immigrato per pescaggio della sorte. Antò il maggiore di quattro fratelli, al figlio più grande il dovere del pane, l’obbligo di fare piene le bocche e gonfie le tasche. Dolores fu scalpello picchiato alle ossa, davanti a lei Antò smetteva di essere materia grezza, minerale estratto senza nome né parte.Gli compariva il tratto dei nervi, la sporgenza dei muscoli, una vita in rilievo. Poteva leggersi addosso la mappatura dell’esistenza, fare il cartografo del proprio destino. Per lei sfidò il toro più temuto della regione, sguainò la fede dalle anche, piantò al femore il coraggio e prese a muoversi nel raggiro delle corna. Uno scarto, lo schivo, poi d’attacco e in ritirata. Io ascoltavo, seduta sulle assi del pontile, trascinata dalla fune ruvida di quel combattimento. Antò e il toro, i loro scatti a graffiarmi il timpano, a incollarmi abrasioni sopra il sentire. Un affanno di mosse che scavava solco nel mio orecchio, faceva buca stordita, tana sorpresa dal sole. Mi sentivo frugata dentro, scomposta da una schiuma solida, ricciolo e artiglio di fantasia. Forse quella di Antò era tutta un’invenzione e lui la Spagna e Dolores non le aveva mai toccate, né con appoggio di piede né con spinta di labbra, ma la bugia che gli si snocciolava sulla lingua invogliava al morso. E io addentavo la storia, ne masticavo buccia e polpa. Poi mi alzavo. Felice e sazia. Nello stomaco verità o finzione, non importa. Solo il gusto conta. E quello era buono.