Su Strappi siberiani di Giorgio Manacorda
di Fabrizio Bajec
Comincerei questa recensione partendo dal titolo dell’opera. È abbastanza raro in poesia che la riuscita estetica di un libro sia inversamente proporzionale alla bruttezza del suo nome. Solitamente i titoli parlano da sé, e spesso non c’è neanche bisogno di aprire il volume per capire cosa c’è dentro. Qui bisogna farlo assolutamente. Come è ovvio, “strappi siberiani” non rimanda a nulla di condivisibile nell’immediato. Giorgio Manacorda lo sa bene, ma per lui non sembra essere un problema, visto che all’origine vi è un lapsus, come racconta nella nota in fondo al libro. E chi ha un po’ di familiarità con la psicoanalisi prende per buono ogni lapsus, come un bene prezioso. Manacorda pensava a voce alta ai trappi siberiani – movimenti tellurici, terremoti – ma mentre lo diceva gli è venuta in mente una ferita personale, molto antica. Per cui, ha considerato di tenere e validare la storpiatura “strappi”, significativa per se stesso. La raccolta è in effetti opera di pura geologia e di scavi della memoria volontaria e involontaria, di analisi della psiche e del mondo, per come lo vede l’autore. In assoluto, non dovrebbe esserci alcuna differenza tra la mente e il mondo. Ma mai prima d’ora Manacorda aveva usato il linguaggio della poesia per parlarci della sua filosofia. È da quella che scaturisce la poesia? Un paradosso, se “quel che resta lo istituiscono i poeti”. In passato, il ruolo di medium di una poetica lo avevano avuto i vari saggi di teoria letteraria. Con Strappi siberiani siamo di fronte ad un nuovo viaggio (il terzo, se si riprende parte del titolo di un’altra sua opera, ed esattamente come in Catabasi, il libro precedente). Ma direi che non si tratta questa volta di una discesa. Questa “Nuova preistoria” è ribaltata e perfino paradisiaca. Già, Manacorda scrive qui il suo Paradiso, nonostante il mondo vada male e sia governato da pulsioni barbariche, distruttive, autofaghe, e nonostante la vecchia logica occidentale, tragicamente dualistica, di un illuminismo che non ha saputo salvare l’Uomo da se stesso. In queste pagine, le poesie appaiono per lo più serene, aeree, plananti, come in Rilke, scultoree e belle di per sé (pure?). Se c’è del pasolinismo, non è volontario, ma risulta per esempio dalla risposta che Manacorda dà a Pasolini (quello delle Ceneri di Gramsci) con la sezione “Roma”, serie di testi materici e sanguinolenti (diremmo) coi quali dire alla città addio e non “piacere di conoscerti”, come al contrario fece Pasolini che lì arrivava negli anni ’50. Pasoliniana è l’urgenza di partire dalla propria visione del mondo, presentarcela con tutti i rischi dell’ideologia (o della religione) per cui ci viene ripetuto che “la poesia è la forma della mente” e che dunque non sparirà finché l’uomo abita sulla terra, perché “siamo fatti di poesia”, “pensiamo per analogia”. La si potrebbe ritenere una pura mistificazione, un dogma indimostrabile. Ma le poesie della raccolta certificano questa visione religiosa che ha bisogno di certezze. E sembrano uscire da una zona nascosta, misteriosa, dalla bocca di un dio greco (il dio della poesia) o dalla notte dei tempi, quando l’uomo dipingeva sulle pareti delle caverne. La poesia è quindi fondatrice di qualcosa che fa dell’essere umano ciò che è. Per capirlo bisogna leggere i molti distici (la forma paradigmatica di quest’ampia cernita), passare attraverso la sezione amorosa, poi per il mito di Icaro, con la figura del funambolo, e in seguito per la capitale di quel che era una volta un impero, continuando con le terribili e ironiche poesie sulla psicoanalisi, i paesaggi e le nature morte montaliane, e infine approdare al saggio in versi, più fragile, come già detto, ma anche la più bella messa a nudo che il poeta abbia scelto sin qui di realizzare. Un libro-testamento, o quasi. Ma pure un ritorno alle origini, per chi conosce il Manacorda di Tracce, quello di “sieri e veleni” insomma: “Pensieri del passato / che avevo cassato, pensieri / senza memoria, pensieri senza storia, / pensieri giganti come elefanti, / i miei pensieri pesanti”. Preferisco tuttavia sintetizzare tutto con un altro componimento.
Un filo di lana uscito dal mio corpo
oscilla tra una torre e l’altra torre
mentre mi svolge mi consuma e scioglie
tutti i nessi che mi fanno una figura
in bilico su me stesso in filatura
tessuta da mia madre, inconsistente
filo che tiene i fili del mio corpo,
il mio piccolo dio fatto di stoppa
appeso a un chiodo appeso in alto, è un filo
d’acqua che fila da quel cielo opaco
il filo che mi nuota e mi sostiene
mentre le gocce cadono giù al fondo,
la loro rete è il mio corpo e il mondo
Giorgio Manacorda, Strappi siberiani, Elliot, Roma 2021.
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