Le conseguenze della morte
di Francesco Ruggiero

Non è una conseguenza dell’amore, la religione. Lo è invece della morte.
È plausibile immaginare un homo erectus che abbia assistito al mistero del trapasso: si sarà interrogato sull’avvenimento, avrà avvertito un capogiro di sgomento e infine avrà ululato senza una direzione precisa. Per poi riprendere a uccidere un attimo dopo di un milione di anni di notti fa.
Il compito della religione è trovare un senso, una corrispondenza a questo buio logico ancestrale, a questo silenzio frontale che è l’universo nero e spaventoso, per dirla un po’ alla De Angelis.
Lacan nel Trionfo della religione descrive con chiarezza tale funzione; considera come ad ogni sconvolgimento del reale, ed il reale in sé, per Lacan, è ciò che non funziona, ciò che si oppone al mondo – quasi debordianamente rovesciato, giacché nel mondo falsamente rovesciato il vero è un momento del falso – ad ogni nuova angoscia, ad ogni dubbio e paura, dunque, la religione attribuisce un ulteriore senso truculento, una moderna interpretazione.
L’Apocalisse di San Giovanni al riguardo è una fonte inesauribile. Ed inesauribile, questo la Chiesa lo sa bene, è l’angoscia che contraddistingue la condizione umana. La terra trema, sempre e ad ogni costo. Tremano le risaie del vercellese, trema l’antica gelateria del corso, tremano i fustini di dixan nei supermercati.
La scienza, inoltre, pone ad ogni suo passo una rinnovata inquietudine, apre una breccia nel reale lacaniano, uno sguardo nel cuore del disastro, come una macchia su un immenso lenzuolo. Gli scienziati vanno avanti, fanno il loro lavoro, studiano come aggiustare i feriti, scoprono la funzione delle proteine e delle stelle, tuttavia non indagano il perché, non hanno risposte, propongono all’opposto sconvolgimenti nel nostro disperato sforzo di afferrare la dinamica degli affari planetari.
E la società, nel suo cambiarsi, seppur lento, indica direzioni apparentemente oscure, e imprevedibili. Alimenta e si alimenta di desideri umani, troppo umani.
Un tempo la religione temeva la scienza, scongiurava la conoscenza e le libertà.
Oggi ha capito che l’ignoto, il reale, non si estingue con la conoscenza o con le libertà, anzi verosimilmente si rinnova, e gestire l’ignoto, quello è il loro mestiere. Da millenni la Chiesa vende un prodotto che addirittura si ignora se c’è o c’è stato o ci sarà. Sa far vedere le cose che non ci sono, le sa evocare.
Attende le vittime del vorace progresso con impazienza; la religione das Kapital ormai trionfante nella sua epifania finanziaria, astratta e virale, manifesta i suoi limiti, in passato si sarebbe detto le sue contraddizioni, così come la globalizzazione genera forme di liquidità e liquidazione incontrollata. In un orizzonte di desideri e mitologie incongrue. Desideri che provocano continui scontri tra pari – e la parità è un concetto molto diverso dall’ uguaglianza – in concorrenza per sfuggire da una marginalità esistenziale. Una lotta che non ha come oggetto del contendere la forma del mondo che verrà, bensì ottenere un posto tollerabile e soprattutto tollerato in questo mondo, come osserva Baumann in Le vespe di Panama: “Non sono più in palio le regole del gioco, ma unicamente l’ammissione al tavolo da gioco”.
Una corsa per sfuggire dall’infinita provincia, per raggiungere lo spettacolo, dove la merce però non viene trasferita realmente e non produce ricchezza, ma contempla se stessa in un mondo da essa creato. E raggiungerlo è comunque impossibile perché si genera in un centro altrettanto astratto e irreale.
La società globale fa desiderare un centro che non esiste, e la Chiesa vive nel costante tentativo di riempire questo vuoto.