Il corpo del viaggiatore
di Marco Mancassola

scanner

A ogni decennio la sua tecnologia. Il primo grande gadget tecnologico a conquistare la scena degli anni 10 usa onde elettromagnetiche che oltrepassano i vestiti, rimbalzano su curve e superfici, rimandano su uno schermo l’immagine del corpo umano esaminato. No, non si tratta dei sedicenti occhiali a raggi X pubblicizzati un tempo sui giornali di fumetti. Si tratta di qualcosa di assai più serio e costoso. Mentre a Bruxelles si riunisce il Comitato europeo per la sicurezza aerea, il dibattito sull’uso del body scanner negli aeroporti suggerisce una commistione sempre più stretta di ansia di sicurezza, politiche di controllo e brivido voyeuristico. Al centro, ancora una volta, il corpo del cittadino.

Comprensibilmente, non tutti sono entusiasti. Le associazioni europee ed americane contrarie all’uso del body scanner ricordano i rischi per la privacy, quelli non ancora chiariti per la salute, i problemi culturali che lo strumento solleva: per alcuni, l’esposizione sotto qualunque forma della propria nudità rimane un tabù etico-religioso. Autorità di controllo e aziende produttrici ribattono che non esistono rischi per la salute, e che i problemi per la privacy possono essere superati. I volti dei passeggeri possono essere oscurati, le immagini dei corpi opacizzate, gli operatori allo schermo saranno fisicamente separati dai passeggeri oppure, addirittura, non ci saranno operatori: all’aeroporto olandese di Schiphol si ipotizza l’uso di computer che analizzino da soli le immagini. Soprattutto, si ribadisce, in nessun modo le immagini saranno conservate o diffuse. Salvo poi ammettere il possibile problema rispetto a scanner corporei di minorenni. Problema, questo, significativo dei tempi in cui viviamo (la paranoia della sicurezza che incrocia la paranoia della pedofilia) e rivelatore di evidenti contraddizioni: perché ammettere il pericolo, se si è appena detto che le immagini non hanno modo di venire conservate o diffuse?

Ai dubbi morali si aggiungono quelli pratici. Sempre in Olanda, il Ministro degli Interni Guusje Ter Horst ha riconosciuto che non esistono garanzie sul fatto che un body scanner possa rilevare piccole quantità di esplosivo come quella nascosta dall’attentatore del volo di Natale. In Gran Bretagna, è stato tra gli altri Ben Wallace, deputato ed ex-dipendente di un’azienda produttrice di sistemi di sicurezza, la QinetiQ, a riconoscere lo stesso tipo di dubbi in un’intervista alla Bbc.

In Italia, nel frattempo, nessun dubbio invece per i ministri Frattini e Maroni, ansiosi di gettare il paese, con entusiasmo senza pari, nella corsa al body scanner. Nelle rispettive dichiarazioni, entrambi i ministri hanno espresso l’idea, di questi tempi seducente, che la sicurezza vale più della privacy. Idea, questa, destinata a essere impugnata sempre più spesso come un ariete, per sfondare resistenze già molto fiacche. In fondo, la privacy del corpo ha poche possibilità di resistere in un contesto culturale in cui la privacy dell’identità è già obsoleta da tempo: basti pensare a come un decennio di reality tivù e social network usati come vetrine della nostra intimità abbiano modificato, senza ritorno, la nostra concezione dello spazio privato.

Resta evidente che gli allarmi sulla sicurezza, di cui le minacce terroristiche rappresentano la faccia più spaventosa, offrono uno spunto perfetto, e purtroppo difficile da smentire, per realizzare una delle ambizioni più tipiche di ogni autorità di controllo: scrutare nei recessi del corpo del cittadino. Non si tratta di una novità. La novità è la pronta disponibilità di tecnologia capace di assecondare questa ambizione. I primi modelli di body scanner per la sicurezza risalgono ad alcuni anni fa, aspettavano solo le condizioni per diffondersi.

Il rischio, a questo punto, è che il corpo del viaggiatore diventi qualcosa di simile al corpo del paziente negli ospedali: un corpo sequestrato, spersonalizzato, sempre più indagato e gestito come una cosa. Lo strumento per compiere questo passaggio resta la tecnologia, declinata nel suo lato più alienante. Al di là di ogni considerazione pratica o morale, c’è qualcosa di semplicemente inquietante, o forse solo ripugnante, nell’idea di venire fotografati nudi, uno dopo l’altro, un corpo dopo l’altro, da una macchina asettica e indiscreta. L’immagine del nostro corpo indifeso, fotografato nel suo intimo e riprodotto in colori metallici sullo schermo di un operatore alla sicurezza aeroportuale, rischia di diventare un’immagine emblematica del nostro presente. Siamo corpi nudi di fronte alla macchina.

[Originariamente pubblicato su Il Manifesto del 7 gennaio 2010]