Questa libertà di Nadia Agustoni
per Paolo Finzi

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In ricordo di Paolo Finzi, molti suoi compagni e amici hanno preparato un numero speciale, a lui interamente dedicato, di A rivista anarchica. Paolo Finzi è stato tra i fondatori della rivista, durata un cinquantennio, quindi ne diventò il direttore e lo è rimasto fino alla morte, avvenuta il 20 luglio 2020 per suicidio.

 

“Tra memoria e tempo presente. Per Paolo Finzi” è ora disponibile e si può richiedere qui:

Associazione culturale Fuoriposto, Venezia

ccp 1016520973 (oppure bonifico IBAN: IT88 D076 0102 0000 0101 6520 973, stessa intestazione)

sarebbe opportuno inviare comunicazione del versamento ad aparte@virgilio.it

La sottoscrizione richiesta è di 5 euro a copia, la causale è: ‘sottoscrizione progetto A’.

 

35 autori hanno partecipato con un loro scritto al progetto, tra cui la sottoscritta. Questo il mio ricordo di Paolo, compagno e amico come pochi.

 

 

 

Questa libertà di Nadia Agustoni

 

Fermati. Pensa. Solo un giorno è la vita…”    John Keats

 

Una breve conversazione, in una domenica milanese di diversi anni fa, con Paolo Finzi e Aurora Failla, mi è sempre rimasta in mente. Si parlava di fondamentalismo e loro notavano, con sentimento di estremo sconcerto e dolore, quanta folla applaudisse e incitasse i carnefici durante le esecuzione pubbliche in paesi come l’Iran e l’Afghanistan. Non se ne capacitavano. Esperienza comune a molti libertari. Era lo scontrasi con l’idea di una bontà del popolo, dei più umili, che forse non è mai esistita.

 

L’entità chiamata popolo è stata quasi sempre solo folla o massa che si scaglia sul più debole del momento. I pochi risvolti storici gloriosi, come la rivoluzione anarchica in Catalogna nel 1936 e alcune esperienze più recenti come Rojava, non possono far dimenticare i milioni di vittime di Stalin e di altre dittature comuniste come in Cambogia, o la situazione del Vietnam e della Cina, i cui regimi impediscono non solo la libertà, ma il dispiegarsi dei più elementari sentimenti umani trovando purtroppo collaborazione diffusa.

 

Paolo Finzi è nella mia memoria una personalità esemplare. Era un compagno vero, come pochi, di una coerenza senza preconcetti e di un anarchismo umanissimo. È stata la sua capacità di ascolto che ho notato fin dal primo incontro, nella sede di A rivista a Milano, unita ad una curiosità intellettuale che voleva davvero comprendere le ragioni degli altri. Non si faceva più illusioni da tempo sugli ultimi, i penultimi e via dicendo. Guardava in faccia la realtà, così come guardava in modo diretto alle persone e ai fatti.

 

Ogni incontro diventa possibilità, scambio e spesso altro conoscere e conoscersi. A rivista, è stata tutto questo. Paolo Finzi sapeva dare coraggio ai suoi collaboratori, anche a quelli che come me scrivono solo ogni tanto su queste pagine.

 

Nitido il ricordo del suo stile. Dopo avere letto il mio breve saggio su Etty Hillesum, sapendo di altre mie ricerche sulla stessa, mi incitò a proseguire: “Te lo ordina il tuo editore, devi scrivere”. Queste le parole, ne sorrido ancora, mi accompagnano da anni, un po’ come un amuleto.

 

Aveva una capacità critica fuori dal comune e sapeva cogliere molto di un percorso umano, del suo divenire. Per questo la sua morte mi interroga pur sapendo che non ci sono parole nuove per quanto ha scelto. Torno così un attimo sul male che ci circonda e di cui tante volte abbiamo discusso per capire cosa sia, come nasce; trascrivo qui una frase di Agnes Heller la filosofa ungherese sopravvissuta all’olocausto e morta la scorsa estate:

 

Il totalitarismo, in particolare, affonda le sue radici morali nelle teorizzazioni del male, che costituiscono la base di quanto si struttura come un discorso totalitario: un discorso che viene ripreso anche dal classico <<uomo della strada>>. Il cittadino comincia a usare il linguaggio del totalitarismo, e alla fine giunge a dare per scontate azioni che solo un anno prima non avrebbe mai accettato, e la cui approvazione avrebbe percepito come totalmente estranea alla sua personalità. È soltanto grazie all’interiorizzazione di un simile discorso che si arriva a ritenere di avere l’obbligo di denunciare i propri genitori alla polizia o di confessare crimini che non sono mai stati commessi”. (Agnes Heller, Il male radicale, Castelvecchi 2019, p. 40)

 

In questo male, non ancora così totalizzante, ma proprio qui e ora intorno a noi già troppo esteso, il malessere anche nostro, il non trovare forse più o non abbastanza le ragioni per credere a un cambiamento vero e profondo.

 

Bisognerebbe saper riposare. Riposare per poi ripartire con alta creatività. La stanchezza, quando sovrasta, diventa tutto il nostro tempo. E il tempo uccide.

 

Possiamo però ancora credere che la vita è forte nel dolore di ognuno. La sua/nostra radice è qui.

 

 

L’indice completo del fascicolo.

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