Su Sospeso respiro. Poesia di pandemia a cura di Gabrio Vitali
di Nadia Agustoni

Sospeso respiro. Poesia di pandemia, a cura di Gabrio Vitali, Moretti & Vitali 2020, pp. 282, euro 25.

 

Agustoni su sospeso respiro

Alcune immagini del tempo del Covid19 le ricorderemo a lungo, come i camion militari che con le salme lasciavano il cimitero di Bergamo e l’abbraccio vuoto di Piazza S. Pietro, con un Papa anziano che sembrava chiedere perdono per tutti e questo in giorni di solitudine e angoscia dove più nulla sembrava certo. Sulle pagine Facebook molta poesia circolava; su WhatsApp le parole degli amici, quel chiedere qui e là qualche notizia e avere la certezza che ognuno stava bene. Tutto questo non diminuiva la solitudine, ma stranamente ci faceva sentire isolati in un microcosmo di stanze e silenzio, in un momento di riflessione profonda e insieme di parole private che non sembrava il caso, almeno non a tutti, di rendere pubbliche. Eppure piano piano, parole più meditate sono arrivate, per restituire materia a quei giorni, alle persone ferite, agli affetti e infine, ma non ultimo, per un semplice abbraccio alla città simbolo della pandemia, quella Bergamo così poco conosciuta fino a poco prima. La dedica di questo libro, infatti, è alla “città ferita”.

 

Gabrio Vitali cura questa antologia di quattro sillogi poetiche di altrettanti poeti, già noti, sul cui lavoro c’è la certezza della qualità. Il lavoro di curatela di Vitali, tocca tutta l’opera poetica dei quattro autori, scava nel loro lavoro per significarne l’importanza, del resto dichiarata nell’intento dell’opera, nel segno di una poesia che sa farsi epica, anche epica lirica in alcuni casi, perché i tempi richiedono uno sguardo a 360 gradi, capace di tenere insieme più strati di esperienza e consapevolezza.

 

Alberto Bertoni, Paolo Fabrizio Iacuzzi, Giancarlo Sissa e Giacomo Trinci, raccontano il loro esperire la pandemia, i momenti salvati, con la parola che cura e restituisce i vissuti e la profondità del baratro, quel senso di fine, ma insieme, mi perdonino se sembra esagerato, di possibilità. Perché ogni fine se lascia molta amarezza, porta con sé anche la consapevolezza che andremo avanti e altra forza verrà.

 

Nella sua silloge Diario poetico e impoetico 2015 – 2020 Alberto Bertoni unisce la visione del campo di Birkenau, reso con frammenti intensi e fortemente evocativi, ai giorni in cui il Covid 19 fa la sua apparizione. Il senso di cosa sia la perdita e a fronte, l’inadeguatezza delle parole, colgono la sostanza stessa della vita e la fragilità e l’enormità del bene, anche quando si misura con il lavoro di chi nega l’umano:

 

Cosa saremmo senza il dolore e la perdita? Ci sentiremmo ancora più soli, impotenti, afasici. Si possono solo sfiorare, certi sentieri della mente, attraversarli per sentirsi niente.” (p. 20)

 

Accarezzo la pietra, ti sento fra le dita, ma tu cosa vuoi dirmi, bambina del disegno, cinesina in tunica viva” (ibidem)

 

A seguire un altro diario poetico in cui Bertoni alterna pagine di riflessione in prosa a quelle in versi. La corposa silloge attraversa momenti differenti con tono asciutto, ma la cui grana rende il valore delle parole quando sanno collegare tempi diversi, crisi diverse:

 

La promessa che domani pioverà/ e che in fondo solo noi sappiamo essere/ così lontanamente insieme/ è il riassunto del mondo, il seme/ gettato stamattina/ dall’altro me stesso che cammina/ senza cane né casco/ concentrato a infilare il varco/ dell’appartamento al primo piano/ in via Ruggera all’altezza del forno/ dov’è nata mia madre o così credo/ lontano un metro dall’urna murata/ fra la chiesa di S. Barnaba e il convento/ in cui hanno raccolto le ossa/ dei morti della peste del Seicento/ tempo dei tempi per lo sguardo di chi passa…/ (p. 41)

 

 

Paolo Fabrizio Iacuzzi è presente nell’antologia con una serie molto bella di sonetti, un lungo racconto dei giorni in cui, tornato vicino alla madre anziana per assisterla riflette su quel particolare momento, sulla difficoltà di comprendere come cambieremo, sul mancare dell’aperto e della libertà, i gesti stessi permeati di un grande pudore, come se l’affetto fosse affidato al silenzio:

 

Siamo ancora vivi per il tè delle cinque. Io e te nel grande/ salone in cima alla casa. Sospeso il tempo nel corso normale. / Quando siamo coi morti che non ci amano più. E noi la sola/ radice. Scampata a Edipo. Ogni complesso. Parliamo col/ silenzio.” (p. 80)

 

Siamo ancora vivi per dire grazie una volta. Mai stati così prima/ d’ora. E pensi che ci voleva esser posti entrambi al confino con/ l’altro per capire il tempo perduto. Strappato ciascuno all’affetto/ dell’altro. Noi siamo qui invece. Tu già prossima al nulla./ Ma io già pensando che tanto prima o dopo sarà. Non sarà/ più vita.” (p. 84)

 

Siamo ancora vivi e non lo sappiamo. Ma noi al mattino siamo/ usciti rimanendo vicino. Rispettando la mappa delle distanze./ Nei luoghi di scuola primaria e della media. Non presidiano più/ se sei cresciuto lì o altrove. Mentre in una ci cresce l’erba…” (p. 94)

 

 

Giancarlo Sissa ci dà pagine essenziali di un diario che parte dalla fine del lockdown per arrivare all’inizio, al giorno del 20 febbraio 2020 in cui il primo malato di Covid 19 è segnalato nel Lodigiano. Sono riflessioni che incontrano il ricordo di un altro tempo, di un pudore femminile raccolto nei gesti di mangiare piccoli bocconi di pane, o accompagnano uno sguardo attento all’isolamento degli anziani nella pandemia. I testi hanno un incipit (inizio) e li chiude una poesia che riassume la sensazione, lasciata come un residuo, sui giorni appena passati.

 

Ho l’anima infortunata, mi zoppica nei fianchi. Il diario è il bastone. Nel diario io sono un bambino che cammina zoppicando, un bambino che si distare con leggerezza o sprofonda inavvertitamente in un abisso di stupore…” (p. 133)

 

Ma cosa emerge dall’emergenza? Ognuno ha la sua Itaca e qualcuno più di una. Quel che aggalla dalla delicatezza dei fondali sono i fiori rossi della forza. Il cielo bianco e il volo opaco dei piccioni dal balcone come neve d’altre feste e compassioni. Dall’emergenza emerge la certezza che non nel pensiero risiede la verità.” (p. 139)

 

Stiamo vivendo tutti un solo lunghissimo giorno che prevede l’alternarsi ininterrotto di ore notturne e di ore meridiane. Siamo sospesi nel tempo vago dell’eterna ignoranza. Sappiamo solo il nostro non sapere.” (p. 148)

 

Nonna Angela, mia madre Tosca, la signora Emilia, le donne che a Mantova non si sarebbero mai sognate di entrare in un bar, semmai mangiava quasi di nascosto un cornetto di pane in piedi dalla fornaia, facendo attenzione a non fare cadere le briciole a terra, gesti oggi quasi incomprensibili, ma belli antichi, gentilezza d’una tenerissima e malintesa dignità — salute a loro e un timido abbraccio di bambino.” (p.157)

 

 

Giacomo Trinci si addentra in un’antropologia del dolore e della rabbia che il virus amplifica e che mette sotto accusa un modus vivendi in cui ognuno di noi scende i suoi gironi dell’inferno. Testi forti, affilati, con una tensione al dire che non fa sconti a nessuno, tantomeno al neoliberismo imperante, al consumismo impotente.

 

“(…) Ma scioperate contro voi stessi./ tutti ognuno per se stesso, in tutti ! / chiudete ogni daffare, disperdetevi ! …/ disoccupatevi appieno, appendete / un cartellino: chiuso per serie./ abbandonatevi alle giostre delle sere”. (p. 184)

 

“ … / sarebbe questo/ — pugno duro di parole da dire —/ questo il momento/ di bombe, esplodere, da dire — / questo il punto di risollevare il verbo — / irati e offesi — contusi d’amore —/ respinti nell’indomito suo fiore / da questa leva sollevare il mondo / togliendo un ritornello da lontano / andato via, da sempre, lontanando /… (p. 190)

 

“ … corpo ti comando, chiedo la luce / tua che mi rischiarì dove è più buio: / dove s’intrica la parola sola. / dove perversa ed ostinata suona. / dove il dove più domina ed impera. / non lasciatemi solo nella sera. / corpo ti chiedo, dà la vista al cieco. / al pieno infarto di parole varco. / al terso e fioco niente dell’amore. / al film immaginato nel dolore. / corpo, dammi il tuo peso, come arreso. / … (p. 199)

 

Una bella serie di fotografie dei dipinti conservati all’Accademia Carrara di Bergamo anticipa le pagine di Maria Cristina Rodeschini, direttrice dell’Accademia, che nei giorni della chiusura del museo entra nelle sale e ci racconta alcune delle opere più belle lì contenute. L’Accademia Carrara ci ricorda Rodeschini: “è un museo eccezionale per la qualità straordinaria del patrimonio d’arte custodito, che ci viene invidiato da molti musei del mondo, collocando il museo tra le prime dieci pinacoteche d’Europa…”. Un excursus che lega il percorso delle immagini a quello della parola e si appella alla bellezza perché lenisca paura e angoscia.

 

In chiusura un saggio antropologico di Mauro Ceruti, professore ordinario di filosofia della scienza presso l’università IULM di Milano e membro del Comitato scientifico della Association Européenne Du Programme Modélisation de la Complexité, ci ricorda che i problemi dell’umanità non conoscono i confini nazionali e riguardano quindi tutti. La crisi stessa chiede di saper collegare i problemi, evitando le semplificazioni, per arrivare a una prospettiva di autentica solidarietà globale.