Mariagiorgia Ulbar, I fiori dolci e le foglie velenose
di Fabrizio Bajec

UlbarSe la prima raccolta di versi di Mariagiorgia Ulbar fosse sfuggita all’attenzione dei più, bisognerebbe, se non altro, concederle il merito di rivelare un poeta vero, sicuro della propria voce. Qualcosa di abbastanza raro ai giorni nostri, considerando la produzione degli autori nati negli anni 80. Sono infatti qui assenti il volontarismo e la letterarietà (intrisa di cultura pop) caratteristici di chi vuole dimostrare di aver studiato prima di scrivere e, d’altro canto, occuparsi del « reale » sdraiandosi supino su di esso, come per registrarne piattamente i segni.
Al contrario, la prosa di questi versi trova un taglio originale grazie a un’infantile naturalezza del parlato. Un parlato che – lo si sarà già detto – avvicina il piglio della Ulbar a quello di Patrizia Cavalli. Se si accostassero due dei loro libri, aperti a caso, si osserverebbe già una somiglianza fisica nella disposizione del testo sulla pagina, l’assenza di titoli, e qualcosa nell’attacco delle singole poesie che suggerisce una reazione anti-lirica alla noia.
Come se il poeta fosse nato per tutta la noia accumulata da bambino, salvo poi trovarsi a proprio agio negli interni delle case e partire da quella domesticità quotidiana per superare i tempi lunghi.
Allora si comincia ad aver fiducia nelle parole e solo in quelle : « (…) cinque o sei parole conquistate / e esisto di più dentro a un luogo / perché io esisto con la lingua / e nomi bastano senza connessioni ».
Il senso di questa prima raccolta è racchiuso in parole-chiave come « esistere » e « nomi » che non hanno « connessioni  fra loro ». E che non devono necessariamente averne per significare. Se si vuole il viaggio, è per timore di non esistere. Ecco la nervatura inquieta che solca un muro di tranquillità (« Allora hai detto : / io sono il muro »), e cioè il tono dell’autrice. Il viaggio « picaresco » che intende proporci è quello costruito (tra realtà e fiaba) dall’infanzia alla prima giovinezza, alla ricerca dei nomi che le daranno la prova della propria esistenza (« solo altrove lontano ce l’ho fatta / a fare veri buchi / neri odorosi di presenza). Ed è un catalogo di oggetti, materiali e animali che troveremo nelle quattro sezioni del volume, ma disseminati, cosicché trovarli diventa un gioco. Non si può non pensare a una sorta di caccia al tesoro e al mondo di Elsa Morante ; altro riferimento che accosta la Ulbar alla Cavalli.
Ciò che la differenzia da quest’ultima (oltre all’uso parco di endecasillabi regolari) è l’assenza di dichiarazioni marcate. Poiché non è sicuro che l’esistenza abbia senso, o che l’esperieza sia una garanzia di vita pienamente vissuta. Sono i chiaro-scuri che risaltano, non le spiegazioni o i vocativi. Dominano i dettagli da cogliere a vista, la diffidenza felina (varie identificazioni col gatto), una lieve passività coagulata in altre immagini di piccoli animali come la lumaca o i rettili al sole.
Per noia e insofferenza, si crede che debba esserci un’isola da raggiungere (ultima stazione dopo l’acqua, la terra e la guerra). Ma di fatto, prima di conquistarla, non è facile incontrare vere e proprie rappresentazioni della guerra. Gli incontri che la protagonista fa danno piuttosto luogo a prese di distanza e « esperimenti », mancanze, anche rimpianti, o conteggi e nuovi cataloghi : « (…) ma mi insegnasti i nomi per chiamarli / cistifellee, creste iliache, tube, trombe e martelletti. / Allora seppi i nomi anche dei pezzi / che ci fanno (…) ». Perché l’intimità, nel senso più largo del termine, è fatta a pezzi, per curiosità di sapere cosa o chi vive : « non sembri più un uomo / sembri parte del mobilio / o un albero dell’orto / e non so più come prenderti ». O altrove : «  conteggio le rotture e vedo / che i pezzi di me / soltanto approssimati si riattaccano, / non ogni linea torna a combaciare ».
Analogamente, potremmo affermare che non tutto torna o regge nell’economia del libro, le sezioni sono impari per ricchezza di tesori. Spesso avremmo voglia di scorciare parecchi versi introduttivi, in modo da andare all’osso, subito ad altri in cui la poesia ci sembra cominciare (Es : « La casa si allarga persino ci entra il Michigan… p. 42) o scartare i testi riempitivi, per esaltare meglio qualche esempio da antologia: « Tu sei un oleandro », p. 29 ; « Prenditi i papaveri a occhio », p. 35 ; « Ora se sto ferma ci ripenso », p. 37 ; « Ho desiderato / di conoscere e rivivere / l’infanzia di qualcuno », p. 83 ; « Sono passati un milione di giorni », p. 85.
Ma la maturità e il lavoro di uno scrittore in divenire consiste proprio nella cernita dei futuri « pezzi da collezione ».

Mariagiorgia Ulbar, I fiori dolci e le foglie velenose, MEF Firenze Libri, 2012, pp. 91, Euro 10,00

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La redazione di Atti impuri