Venti secondi. Omaggio a Hank Jones (July 31, 1918 – May 16, 2010)
di Ade Zeno

HANK_JONES

Martedì 12 luglio 2005: non ho idea di quanti siano, qualcosa tipo mille o duemila, uno sfacelo di gente affondata sui seggiolini verdi di un’arena rimovibile in preda a zanzare grandi come caccia bombardieri, ma in ogni caso qui e qui soltanto per celebrare uno sparuto gruppo di anziani padri con la musica dentro il sangue e le ossa. In mezzo a questo carnaio di corpi innamorati ci sono anch’io, piazzato in ultima fila, sul punto più alto dell’arena, a due passi dalle nuvole e dall’incedere cieco dei  pipistrelli. Minaccia di piovere, ma va tutto liscio e gli eroi sul palco cullano l’aria come balene danzanti e leggere. Hank, anche lui seduto come me, ma dall’altra parte, e con un piano perfetto sotto le dita, dice qualcosa alle ombre che giocano coi fari, sorride al sax di Joe Lovano, di tanto in tanto si accarezza i baffi con una mano mentre l’altra continua a giocare con dio. Io e Valentino ci guardiamo senza parole, è una musica che abbiamo scoperto insieme molti anni fa durante serate gravide di discorsi e bevute stratosferiche, adesso semplicemente sappiamo che è sbalorditivo essere qui. Poi le ultime note, non le ultime della serata, quella è ancora a metà, ma le ultime di Hank, tra poco arriverà sul palco Benny Golson, un altro grande del jazz, un altro dei più grandi, e in fondo la maggior parte di questa gente seduta in mezzo agli insetti estivi è qui soprattutto per lui, l’immenso Ben, il ballerino Ben, non come me che ho anche altre ragioni.
Hank esce, nel vestito scuro che accompagna il suo incedere nello spazio con l’eleganza di un narvalo nero dà l’impressione di essere tranquillo e rilassato, pronto per prendere il suo piano e andarsene da qualche altra parte dell’universo a spremere cuori. Inizia la seconda parte dell’evento, Golson attacca con Whisper not, una ballad incredibile, siderale, ovazione di applausi, tra un solo e l’altro perfino qualche coro da stadio. Poi sento la mano di Vale che mi stringe un braccio, mi volto, lui fa “Guarda chi c’è lì sotto.”
Hank, a cinque metri da noi, sulla strada del ritorno, col suo vestito scuro e gli spartiti ancora tra le braccia, così come si è congedato dal palco, con lo stesso passo lento e sospeso procede in compagnia di Lovano sull’identica ghiaia che ho percorso io in senso contrario per andare a incontrare la sua musica. Intuisco appena il “Cazzofai?” di Vale che mi accompagna nella goffa impresa di scavalcare cinque file in un salto per scaraventarmi di sotto col fiatone. Solo qualche istante dopo, quando ormai ho raggiunto il basso, alzo la testa e vedo la faccia dell’amicofratello che ride e fa no con la testa come per dire “Tu sei proprio scemo.”
Io ricambio e procedo, ormai Hank è a meno di cinque passi da me, di spalle, va avanti, posso sentire la sua voce bassa che conversa con quella di Lovano, rallento, prendo il respiro, mi dico: “E adesso?”
C’è molta gente intorno, ma nessuno sembra accorgersi del solo su Autumn leaves che sta passando loro accanto: è il solo che mi ha cambiato per sempre la vita, una sequenza di note lunga venti secondi, i venti secondi  8.38/8.58 della registrazione del 9 marzo 1958 in cui Miles si prende una pausa e lascia che le dita di Hank partano all’improvviso per un viaggio di andata e ritorno da qui alle stelle. Mi ha accompagnato per tutti questi anni e ora è qui, un solo in carne e ossa, basta allungare un braccio, una mano:
“Mister Jones?” sussurro.
Il vecchio si ferma, si volta, Joe Lovano prosegue, raggiunge qualcun altro.
“Sì?”
“Mi scusi, volevo un autografo.”
Sorride, i suoi occhi marroni sanno d’acqua dolce.
“Certo. Ma andiamo alla luce che qui è buio e non ci vedo.”
Facciamo due passi e raggiungiamo il cono di un faro gigante, ora ci siamo soltanto io e lui.
Mi porge la mano, stringe forte continuando a sorridere.
“Allora, dove te lo faccio questo autografo?”
Eh, già. Mica ci avevo pensato. Frugo nella borsa a tracolla in cerca di qualcosa, un foglio o un biglietto del tram, e poi una penna, o una goccia di sangue, ma sai, Hank, io non ero qui per l’autografo, volevo solo sentire la tua voce e averti vicino per un momento. Trovo la penna, e perfino un volantino del concerto che ho preso all’entrata, c’è anche la sua foto, mi è andata bene, penso mentre gli porgo il mio bottino.
“Suoni?”chiede.
“Un po’. Ma non sono un granché.”
“Cosa suoni?”
“La tromba.”
Wonderful.”
“Volevo ringraziarla.”
“Grazie a te.”
Hank si gira, c’è una donna vestita di bianco che lo chiama, deve essere una dell’organizzazione.
“Devo andare. Buona fortuna.”
“Grazie.”
Hank se ne va, ora è nuovamente di spalle. La signora in bianco lo accompagna verso l’uscita. Torno sui miei passi con questo volantino scarabocchiato H. Jones e con il sangue che balbetta ancora parole a metà. Torno verso gli spalti, alzo la testa, Vale è lì che guarda e ride.
Faccio per riscavalcare le cinque file che qualche minuto prima mi ero mangiato con un balzo, poi mi fermo all’improvviso e penso che non ho fatto la cosa più importante.
“Sai Hank, c’è quel solo su Autumn leaves, quello che dura venti secondi ed è tanto perfetto da sembrare scritto… Sai Hank, quei venti secondi hanno cambiato molte cose della mia vita…”  Comincio o correre, di nuovo balzi, salti pazzi, quanti metri saranno, venti, trenta, dovrebbe essere ancora da queste parti. Arrivo all’uscita nello stesso momento in cui l’ultima portiera del furgoncino dell’organizzazione si chiude. Riesco a vedere la sua nuca adagiata sul poggiatesta del sedile posteriore, ma ormai è davvero troppo tardi. Sai, Hank, sono stato proprio uno stupido a non dirti ogni cosa, a sprecare così il poco tempo che avevamo a disposizione. Di sicuro ci avrei messo un po’ a rintracciare le parole giuste nel mio inglese stentato, ma sono certo che alla fine sarei riuscito a raccontarti almeno un pezzetto della verità, e a spiegarti come quella magica sequenza di tasti e dita mi avesse fatto invaghire per sempre del jazz, dell’aria che si trasforma in musica, della musica che passa dallo stato aereo a quello solido per poi trasferirsi in tutti gli altri stati possibili.
Mi mancherà tutto di questo momento, pensavo mentre scappavi via chissà dove.
Oggi scopro che da qualche giorno sei scappato davvero, e questa volta per sempre.
Ho ritrovato quel volantino, la tua foto, la firma che ci hai fatto scivolare sopra con una grafia allo stesso tempo elegante e incerta. Me lo passo tra le mani, mentre un piccolo groppo di tristezza mi attraversa l’esofago, il cuore, la gola.
Perché di tutti i tuoi novantuno anni passati a danzare insieme ai più gradi, Parker, Davis, Coltrane, Roach, Carter, Adderley, Blakey, Williams, Ella Fitzgerald (perfino Marylin, che hai accompagnato nel suo storico Happy Birthday), di tutto questo quasi secolo di note e respiri, i venti secondi di cui non ho saputo parlarti, beh, quelli in fondo li hai suonati soltanto per me.