Comincio a capire
di Jonida Prifti

Volo.
Verso il punto di luce alla fine.
Verso il sassolino sul fondo del pozzo.
Verso il bianco esserino annidato nel ventre.
Verso la profondità d’un stomaco vuoto.
Muoio……..

(Sylvia Plath)

Si muove l’armadio, pian pianino, si alza in alto la tenda, pian pianino, amara la luna si nasconde dietro il vetro cristallino: le mani spruzzano, ingenue, tombe di sguardi.

Comincio a capire.

Camminando sulla stessa strada incontro la stessa persona in diverse movenze; emette fumo il corpo della cosa che reggi tra le mani e t’indossa, t’annusa l’aria  del contatto insorto.  E tu, ti fermi, ti congeli in mezzo alla gente aggruppata a cespuglio, ti aduli davanti a carni morbide, succose le mele te le mangi; intrattenendo il gusto giusto in mezzo alla lingua; il palato si gonfia dal masticare incolto. Dall’angolo retto, ti fisso: la testa all’indietro mangio intere tombe di sguardi.

Comincio a capire.

Casco nel pozzo degli incolti che amano sfiorarsi le membra; si stringono le mani leggermente, per non sentire di più, fermarsi al giusto contatto: definendo le classi.  Nel volo di caduta invoco qualcosa di ignoto e un nome non riesco a dare. Forse Dea, forse Dio, forse Io. Ma precipito intanto. Nessuno fa sentire la sua voce, giusto Io. Ingenua. Comincio a capire, come le radici delle erbacce che il pozzo abbraccia sono ormai stanche di specchiarsi sulla stessa acqua, stanche della luce tirchia; s’addormentano nel buio dell’urlo isolato, nelle pietre umide d’un “caffè letterario”. E stanche, al congelar del sole, si chiudono in tombe di sguardi.

In fondo al pozzo, giusto nel centro, s’addormenta.  I fiocchi bianchi, giganti, le raccolgono il collo dominando quel rosso cuore: trascina la bellezza sull’orlo del labbro indolenzito, intrattenendo le lacrime nell’olfatto.  Si attorciglia, umido, il mantello contro quel corpo pallido, come un sipario la solleva, giusto nel centro del palco. Dormiente ancora, ondeggia con i piedi zuppi di colori, si cuciono intorno interi cosmi. Dormiente, comincia a capire, che non è un sogno; gli aghi sfilano reti di realtà spezzate, tessono atti irrisolti, scollano amori nel fondo del caffè. Pavoni le strappano i capelli folti per tessere l’invidia nel capo devastato dalla lebbra. È la peste. Si sveglia, solleva le corde del sipario schiacciando il pedale forte, irruente, vola, sopra quelle tombe di sguardi.

Comincio a capire.

Cola di liquido gelido nelle onde delle ossa, secche quanto le sue dita, scheletriche, ballerine, suonano sopra i tasti giusto sull’orlo dei fianchi. Lontano il suo sguardo segue fiati contesi sul filo d’un circo socializzato dalle solite facce alcoliche: innocue adulazioni di maschi senza cazzi. Immobile, senza ritirarsi, assorbe gli applausi di scuri abbracci; all’angolo del palco, a spalle girate, dominando lo sguardo, ella ipnotizza la sua stessa ombra. “La stella rara” la adula la “Vella”, avvelenando la testa a luna piena, senza badar a quel che dentro cela. La notte, il velluto del mare t’indossa. E l’onda carezzevole dell’acqua nasconde, sotto, una luna cadente.