In direzione del bene (su Giorgio Falco)
di Luca Alvino

l_ubicazione_del_beneIl racconto “L’ubicazione del bene” di Giorgio Falco, che dà il titolo all’interessante raccolta pubblicata da Einaudi nel 2009, si chiude – un po’ a sorpresa – con una citazione parodistica della dannunziana Pioggia nel pineto: «Piove su tutta Cortesforza, sul tendone del circo, sulle gabbie, sui capannoni, sulle strisce dei parcheggi, sui numeri civici, sulle siepi divisorie, piove sul tetto della mia casa pignorata». Lo scarto rispetto al testo originale operato tramite la parodia disegna delle coordinate interpretative che sono utili per un’esegesi dell’intero libro. Al paesaggio silvestre della poesia dannunziana – scenario naturale sul quale la pioggia discende, distribuendosi in maniera uniforme su tutti gli elementi che lo compongono – nel racconto di Falco si sostituisce uno scenario segnato da una sedazione per così dire amministrativa, in cui la natura sembra come addomesticata attraverso una costante e disciplinata operazione di controllo, cui non sovrintendono cicli stagionali e regolatori biologici quanto i regolamenti condominiali e la certificazione di qualità. D’altronde la norma di legge e la valutazione commerciale appaiono come i soli criteri possibili per un approccio ermeneutico alla realtà.

Il titolo del libro, L’ubicazione del bene, non può non illudere il lettore relativamente a un presunto tentativo di ricerca morale, teso a indicare una precisa direzione etica. In verità la sua spiegazione è meno nobile: il bene è in realtà un bene immobiliare, per l’esattezza una casa pignorata, del quale vengono fornite a potenziali compratori delle informazioni che li aiutino a contestualizzarne l’ubicazione. L’abitazione si trova a Cortesforza, l’immaginario piccolo centro residenziale dell’hinterland milanese a un quarto d’ora dalla Tangenziale Ovest che funge da scenario a tutti i racconti del libro.

La narrazione rimane quanto più possibile a un livello denotativo, assolutamente neutrale, priva di qualunque tipo di giudizio di merito. Tuttavia il dramma sembra tracimare inesorabilmente dalla storia come contrasto tra una normalità posticcia e l’intima contraddizione dei personaggi, il loro cuore notturno che non si lascia imbrigliare in pettinata esteriorità. Il tono apparentemente distaccato scaturisce dal riscontro di un’inquietante incapacità di provare meraviglia, di dubitare, e dunque di iniziare un percorso speculativo. Nel processo conoscitivo l’unico tipo di valutazione possibile è di natura commerciale. Le vicende umane più drammatiche non riescono a destare compassione, non muovono il pensiero a una riflessione etica o valoriale. L’uomo sembra aver perduto la facoltà di dare al bene e al male una precisa collocazione; la capacità – politica e culturale – di riflettere sulla società, sui modelli economici, sulle scelte della classe dirigente, limitandosi a compiere una serie di considerazioni meramente utilitaristiche sull’ubicazione del bene. La felicità e la disperazione hanno cessato di essere un discrimine valutativo per divenire puro business, misurando solamente la distanza tra un buon affare e una speculazione sbagliata.

È l’ottundimento di un’intera generazione, quella fra i trenta e i quarant’anni, che rispetto alla precedente vive una situazione di totale disorientamento. Negli anni Novanta si processavano i trentenni, incapaci di prendere in mano la propria vita e di assumersi delle responsabilità; oggi quella medesima generazione, di un decennio più matura, ha trovato il coraggio di crescere. Ha iniziato a lavorare, è andata a vivere per conto proprio, si è creata una famiglia. Ma tutti questi traguardi sembrano sgretolarsi dinanzi alla prova del tempo. Il lavoro è quasi sempre insoddisfacente. Difficilmente si riesce ad acquistare una casa senza l’aiuto dei genitori. Gli uomini non si sentono più padroni della loro vita e perdono fiducia in loro stessi. Le coppie, non più unite da progetti comuni, ma anzi divise da ambizioni personali irrealizzate, si separano. Verificare l’inanità dei propri sforzi provoca un senso di frustrazione devastante, un’insoddisfazione talmente diffusa da divenire il movente principale delle azioni dell’uomo. Laddove la generazione dei padri ha condotto un’esistenza scandita da ritmi misurati, che consentivano una lenta metabolizzazione cognitiva dell’esperienza, un adeguato bilanciamento tra il tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla famiglia, oggi i loro figli sono condannati a lavorare fino a tarda sera, le ferie sono implose nella misura del fine settimana. Gli uomini vivono un’esperienza di desolazione, hanno smarrito definitivamente il passo della natura.

Si avverte un bisogno sempre più urgente da parte dell’uomo, stressato dai frenetici ritmi lavorativi e dal caos cittadino, di riaccostarsi a un ambiente naturale che mitighi il crescente senso di alienazione della vita moderna. Cortesforza rappresenta una precisa operazione commerciale animata esattamente da questo spirito. Non vi si trovano i grandi palazzi della metropoli ma solamente comprensori di villette, ciascuna delle quali dotata di un posto auto e di un piccolo giardino. L’interazione con la natura è mediata da elementi di arredamento esterno che svolgono una funzione protettiva, fungono da schermo, una sorta di tramite tra l’intimità della casa e il mondo di fuori: pannelli grigliati, tralicci di bambù, siepi schermanti d’alloro. È una natura addomesticata, che non aggredisce, non mette in pericolo, ma anzi preserva e protegge. Se da un lato infatti l’uomo sembra avere bisogno di recuperare un rapporto con la natura, d’altro canto sembra temerne un aspetto per così dire sinistro: la natura porta dentro di sé un potenziale di caos che sfugge fatalmente al suo controllo, minacciando continuamente di fuoriuscire da sotto l’apparenza delle cose per mostrarne il lato terrifico e scabroso.

Durante il processo di civilizzazione l’uomo ha conquistato un controllo sempre maggiore sulla terra. Ha soggiogato gli animali, o addomesticandoli o escludendoli dal proprio territorio oppure sterminandoli. Ha imparato l’arte dell’agricoltura, abituandosi a pretendere un raccolto proporzionato rispetto allo sforzo della coltivazione. Ha segregato nella profondità del proprio inconscio le paure ataviche della lotta per la sopravvivenza, la necessità di difendersi dalle bestie feroci, il terrore di essere sbranato, imponendo al territorio un ordine fortemente antropizzato, garantito tramite un controllo attento e capillare. Ma dietro ogni immagine apparente di ordine si cela il caos, e la natura è lì, con la sua portata di entropia, pronta a insidiare l’umana pretesa di onnipotenza.

È una tematica già nota almeno dagli anni Novanta: si pensi a Jurassic Park di Michael Crichton e alla dialettica assai efficace di questo romanzo proprio tra controllo e caos, tra l’ambizione dell’uomo di soggiogare spaventose dinamiche naturali e la rivincita ottenuta dalla natura stessa su tale arroganza, indifferente all’intelligenza, allo spirito imprenditoriale e all’avidità. Nei primi anni Novanta ciò rappresentava un serio elemento di riflessione, subito dopo lo yuppismo del decennio precedente e immediatamente prima del boom tecnologico della New Economy, che avrebbe temporaneamente ridato nuovo vigore e nuove illusioni al frenetico mercato del Nasdaq. Jurassic Park, grazie soprattutto al successo del film di Spielberg, non si limita a esprimere perplessità vagamente ambientaliste o anticapitaliste: mette in discussione un intero paradigma, ristabilendo – anche con il presupposto filosofico della teoria del caos – la collocazione dell’uomo in una precisa gerarchia, definendone il ruolo e puntualizzandone il rango.

Nel libro di Falco il potere nascosto della natura assume conformazioni meno spettacolari ma ugualmente spaventose. I numerosi riferimenti agli animali sono connotati da un atavico senso di angoscia, come se essi costituissero un tramite tra il mondo controllato di Cortesforza e uno sotterraneo, sempre in agguato, che l’uomo ha la necessità di governare tramite strumenti appositamente deputati. Il riferimento, dunque, al tendone del circo e alle gabbie – posto in cima all’elencazione citata inizialmente nella parodia dannunziana – assume un rilievo a tutto tondo nel contesto narrativo, alludendo a un ritorno del giurassico nel significato sopra descritto, in relazione ad alcune ossessioni per gli animali che colpiscono il lettore per una marcata insistenza e che vale la pena di analizzare.

Due coppie di amici fanno una gita allo zoo insieme ai figli. Vogliono mostrare gli animali ai bambini, che ne hanno una percezione alterata, distorta dai cartoni animati e dalla pubblicità. Già lungo la strada, presso una stazione di servizio, incontrano un camion che trasporta bovini: «Un Tir ha parcheggiato proprio dietro di noi, cigolio di freni e odore di stalla, merda, urina: un camion a rimorchio carico di animali. Gli agnelli davanti, disposti su due livelli, cercavano di sporgere il muso in fuori. Nel rimorchio rifiatavano tre tori, erano più esausti degli agnelli, sembrava avessero spinto il camion».

Colpisce una certa crudezza del linguaggio, che denota immediatamente una situazione di disagio. Gli animali sono descritti nella loro sgradevolezza, per il cattivo odore, la sporcizia. Sono rinchiusi nel camion e sembrano soffrire la segregazione coatta. Sporgono il muso in fuori alla ricerca d’aria, sembrano stanchi. Il loro potenziale oscuro viene come circoscritto negli angusti e duri limiti metallici del Tir. I tentativi di ribellione delle bestie sono puntualmente frustrati all’interno del veicolo che le tiene segregate. Giungono allo zoo e l’auto si inoltra tra gli animali lungo il percorso del safari. Un gruppo di scimmie assale l’automobile, salendo sul cofano e sul tetto, e causando il panico all’interno dell’abitacolo. Lo scuotimento provocato dalla percezione del lato ingovernabile e oscuro della natura crea una breccia nell’assurda pretesa di controllo da parte dell’uomo sul mondo intero. Una simile scossa è sempre salutare, in quanto costringe a prendere coscienza di una malattia del cuore che impedisce una corretta percezione della realtà. È uno sfasamento che consente una delle rare epifanie dell’opera, un momento se non di lucidità per lo meno di dubbio. Le epifanie sono rare ma significativamente collocate sul finale delle storie, ad aprire una prospettiva di ottimismo poco apprezzata nel libro, ma che ne costituisce un’importante caratteristica.

È lo smantellamento del rapporto diretto con le cose. Nell’epoca del terziario avanzato si perdono le tracce del rapporto esistente tra il sistema di produzione e il bene prodotto. La produzione viene esternalizzata in paesi in via di sviluppo, dove il costo della manodopera è inferiore e le leggi doganali più permissive. Ciò che conta non è più il bene in sé quanto l’apparato dei servizi che ne consentono la fruizione. Laddove la consumazione del bene costituisce una procedura chiusa, completa, nella quale il consumatore ha una relazione diretta con il prodotto finale, la consumazione del servizio è una procedura aperta, nella quale al cliente viene fornito un accesso astratto a una fruizione ipotetica, una soglia sull’indefinito che consiste in un contatto, il numero di un customer care, un indirizzo e-mail. È un uscio che teoricamente può affacciarsi sul nulla. Le e-mail difficilmente ricevono un riscontro, ai centralini rispondono voci anonime da chissà quale paese. È il servizio a farsi carico di mediare presso il cliente finale la percezione della qualità del bene. Non esistono criteri oggettivi legati al bene in sé che consentano al consumatore di compiere autonomamente tale valutazione.

Non è  più possibile una conoscenza diretta della realtà. Sembra che tra l’osservatore e il mondo si sia insinuato uno strato intermedio che impedisce un’esperienza immediata. La conoscenza avviene per vie laterali, di sponda. Esaurito ogni margine di guadagno sulla produzione del bene, si tenta di guadagnare sul processo di conoscenza attraverso il quale il bene stesso viene percepito e giudicato. Se da una parte i costi di produzione si sono largamente ridotti grazie ai benefici portati dall’industrializzazione, d’altro canto la proliferazione dei servizi ha sovraccaricato i prezzi di numerosi costi aggiuntivi che pesano in maniera spropositata sui consumatori. Il marketing cessa di essere solamente uno strumento di analisi del mercato e assurge a una dimensione gnoseologica. La logica pubblicitaria non soltanto ha pervaso gli spazi naturali del commercio, ma ha assunto una portata esistenziale potenzialmente onnicomprensiva. Nulla che non sia commercialmente desiderabile è degno di attenzione. I modelli diffusi dai media impongono a tutti almeno un’apparenza di bellezza e di benessere, e la prima impressione conta più della sostanza. Il prezzo degli oggetti non è legato alla qualità del bene, ma a tutto ciò che gli sta intorno: per l’appunto, alla sua ubicazione.

Ci si confronta con una progressiva perdita del senso della centralità. Non si riesce più a comprendere cosa sia centrale e cosa periferico. La differenza che passa tra la consumazione del bene e la consumazione del servizio è la stessa esistente tra abitare in città oppure a Cortesforza. In entrambi i casi il centro è stato già occupato, e spostarsi in periferia rappresenta l’unica alternativa possibile.

Falco sembra approfittare di ogni occasione per rivelare la realtà oscura che scalpita al di sotto delle cose, fin dalla prima pagina del libro, nella quale sembra voler da subito scomodare il lettore andando a infastidirlo, facendogli prendere consapevolezza di qualcosa di spiacevole: «Gli scarafaggi … escono di notte, traboccano dalle macchine spente del caffè, camminano sulle tazzine rivoltate dei bar chiusi, sui cucchiaini pronti come soldati per le prime colazioni dell’indomani». Gli scarafaggi – come del resto un po’ tutti gli insetti, protagonisti nel libro di più di una storia – rappresentano una realtà notturna e al tempo stesso raccapricciante, qualcosa di sbagliato nel mondo idealizzato di Cortesforza. Si finge che non esistano, ma fuoriescono d’improvviso con l’ostinazione di un dato di fatto, indifferenti alle disinfestazioni e all’umano sbigottimento. Sembrano appartenere a un’altra dimensione, chitinosa, microbica, quasi eroica nella sua impassibilità al dolore, e per questa profonda estraneità riescono a insidiare pericolosamente quell’ordine sociologico-amministrativo garantito dalla logica del servizio. Abitano la realtà nei suoi recessi più insondabili, hanno accesso al nucleo più interno della materia, rivendicano la superiorità della natura sull’uomo, umiliano la sua insensata pretesa di dominio.

In “Piccole formiche bianche” una giovane coppia acquista una villa settecentesca e ne affida la ristrutturazione a una ditta. I due sposi assistono da un camper parcheggiato nel giardino allo svolgimento dei lavori, osservando giorno dopo giorno la loro nuova casa che prende la forma desiderata sotto la direzione esperta del capocantiere. La villa è molto bella, sembra l’ambientazione ideale per la loro vita insieme. Fin da subito tuttavia si intuisce che al di sotto della bella apparenza presentata dall’agente immobiliare si cela una realtà noumenica oscura, spiacevole, velenosa: «Una finestra dell’ex fienile è spaccata, la breccia del sasso ha la forma di un pugno scoccato, l’esito ansioso di chi, rinchiuso, vorrebbe vedere meglio. Attorno a quello spiraglio informe vola un nugolo di moscerini indecisi tra l’umidità dello sfondo opaco e il primo piano della luce del sole. Dentro l’ex fienile, Gabriele e Silvia respirano odore di gasolio, come se il pavimento galleggiasse sul carburante, mentre enormi ragnatele celebrano l’imponenza di un’architettura pensata per festeggiare il declino».

Si percepisce una condizione di prigionia, un tentativo di fuga ansiosa, rimarcata da un nugolo di moscerini che indugiano sulla soglia tra le due dimensioni, la realtà profonda e quella apparente. D’improvviso qualcosa cambia: l’edera che rivestiva le pareti esterne si secca e cade, svelando il brutto intonaco sottostante. Dopo la breccia nella finestra del fienile, la caduta delle foglie rappresenta un’ulteriore epifania. I due sposi comprendono che al di sotto della curata apparenza esterna si cela una realtà sconveniente, fatta di brutte radici in rilievo e colori scrostati. L’ubertà del romantico rivestimento finisce ammucchiata nei sacchi neri della spazzatura, svilita dal repentino disfacimento. Ma i segnali della terra vengono ignorati: i due protagonisti fingono che la caduta delle foglie non stia a significare altro, quella vita sotterranea che tenta di squarciare la superficie delle cose e di uscire verso la luce con il suo potenziale di corruzione, di oscura putrescenza. Fino a quando non appare evidente che l’edera ha nascosto le reali condizioni della casa, i cui muri, esposti all’umidità di Cortesforza, risultano minacciati da seri problemi di staticità. La percezione della realtà si sgretola insieme alle cose stesse, ai detriti di muro che si distaccano di notte. Le cavità interne di tutte le strutture risultano infestate da migliaia di termiti che rivendicano il proprio sordo diritto all’esistenza divorando l’anima di cellulosa della villa. Il racconto termina con i due protagonisti che osservano – trattenendo il fiato – l’opera attenta della disinfestazione, e per la prima volta intuiscono la profondità della vita sulla quale si affacciano, i gorghi inimmaginabili del microscopico, la sottostante complessità dell’universo.

Nel racconto “Alba” si assiste nel finale a un repentino cambiamento di prospettiva. Il protagonista trascorre una notte in camper di fronte alla propria casa – dalla quale è stato estromesso in seguito alla separazione dalla moglie – e sembra osservare quei luoghi per la prima volta. L’alba che dà il titolo al racconto suona come una sorta di grado zero dell’esistenza, un livello minimo di compimento che consente di invertire la marcia e risalire a ritroso nel percorso della consapevolezza. Affinché si riesca a vedere al di sotto dello strato fenomenico della vita c’è bisogno di scardinare l’abitudine. Il cambiamento di prospettiva serve a screditare il punto di vista imposto dai condizionamenti e a ricominciare a pensare in maniera autonoma. Tuttavia, la riappropriazione dell’autonomia critica rischia di passare inosservata. Il tono della narrazione non sottolinea né lessicalmente né sintatticamente la novità e la freschezza del pensiero che torna a fluire, a irrorare l’intelligenza. Il dettato narrativo continua a scorrere in misura piana, algida, denotativa. Difficilmente viene sottolineato uno stato d’animo. Ma è la denotazione stessa a connotare una freschezza del senso. La novità sembra consistere in una qualità della luce che si posa sulle cose, le quali rimangono sempre distanti, esterne, indifferenti.

«Lavano la strada, la resistenza delle spazzole contro l’asfalto è un rumore sordo e continuo che sfiora il camper, cresce quando sfiora la fiancata accanto al letto, come lo scroscio di una cascata osservato da una grotta preistorica. Quando se ne vanno, lui sente i primi colpi dei cacciatori in fondo a via Mozart, vicino al pioppeto. Sparano raffiche di tre colpi consecutivi, tacciono dentro la meditazione dei cani, che corrono verso le prede moribonde. Gli uccelli sopravvissuti, alle sei e quarantacinque del mattino cantano sopra la cabina del gas. Lui apre lentamente la portiera e scende dal camper. Il parcheggio è vuoto, i cerchi umidi concentrici si espandono sull’asfalto, fino al perimetro della sua carrozzeria».

Gli indizi sono pochi, e a una lettura superficiale potrebbero sfuggire. È il titolo del racconto, “Alba”, a richiamare l’attenzione, a insinuare il dubbio che la scena finale mattutina debba essere una chiave di volta, un grimaldello interpretativo del fallimento esistenziale del protagonista. Rileggendo il passo si colgono piccoli segnali di senso, a partire dagli umidi cerchi concentrici che segnano un movimento dall’esterno verso l’uomo. Si percepisce un punto di vista personale, costituito tutto da sensazioni: il rumore del macchinario con cui viene lavata la strada, gli spari dei cacciatori, il canto degli uccelli. Per la prima volta la realtà viene percepita nella sua spontanea manifestazione, al di fuori dei progetti dell’uomo, non distorta da una volontà utilitaristica; e per la prima volta l’uomo tende l’orecchio per ascoltare.

Si paragoni la scena finale con quest’altra, all’inizio del racconto, nella quale viene descritto il plastico del centro residenziale ancora in fase di costruzione ove i due protagonisti sarebbero andati ad abitare: «l’intonaco rosa salmone, incerto se cedere all’arancio o al corallo; il verde sintetico dei giardinetti privati, macchiato dalle aiuole fiorite di giallo; due persone di età indefinita, fuori, sul marciapiede, e un cane marrone alto quasi quanto le persone; macchinine nelle strade ordinate da linee bianche sul bitume levigato, elegante, e macchinine di ritorno da qualcosa, accolte dai fedeli cancelli automatici, congelati per sempre nel momento irripetibile dell’apertura verso i box».

La vita è  una realtà congelata, compressa all’interno dell’uomo come progetto commerciale; qualcosa che non esiste di per sé, ma solamente nelle parole dell’agente immobiliare che ne illustra le qualità. I colori sono poco convincenti, così come le proporzioni delle figure. È un simulacro, un inganno. I due giovani si prefiggono tutti gli obiettivi imposti dai modelli mediatici (la casa, il lavoro, un figlio, la promozione); lottano per conquistarli fino a vedere la propria vita sgretolata e a perdere completamente il senso delle cose. Ecco perché gli uccelli che all’alba cantano sulla cabina del gas sono dei messaggeri di speranza, nella loro purezza. Stanno lì a cantare, sulla strada lavata di fresco, ad annunciare che la vita non si lascia congelare in un plastico, in un sogno preconfezionato da uno studio immobiliare.

Il cambiamento di prospettiva, lo sfasamento spazio-temporale del punto di vista, «l’anomalia del guardare il luogo dove si vive da un’altra posizione» si rivelano dunque una fertile strategia per tentare di rimettere in moto il meccanismo della meraviglia, che per Kant costituiva il cominciamento della riflessione filosofica. La compassione può nascere solamente da questo tipo di capacità. Non è sufficiente osservare gli altri dal proprio punto di vista, attraverso lo schermo dei propri pregiudizi e del proprio egoismo. Occorre uscire da se stessi, scardinare le abitudini sedimentate, andare incontro all’altro, mettersi al suo posto. Nell’ultimo racconto del libro, “Le parole come gli altri”, il protagonista si reca nell’abitazione di un suo vicino di casa per recapitargli una lettera. Per farlo deve vincere una resistenza interiore: gli sembra di sapere già troppo di lui, per averlo osservato per anni dalla finestra, e ha dunque paura di conoscerlo meno superficialmente. La conoscenza dell’altro rischia di compromettere la parzialità vincolata del punto di vista individuale, che è il basamento sul quale viene combattuta la battaglia quotidiana per la vita. Conoscere l’altro significa accettare il dubbio, mettere in discussione il proprio interesse nel momento in cui esso si scontra con l’altrui: tornare ad accettare una prospettiva etica, restituire al bene e al male un’ubicazione traslata, di natura morale e non solamente di tipo economico-amministrativo. Osservare la propria abitazione dal punto di vista del vicino consente di sperimentare «la pena per la propria esperienza quotidiana». La compassione, la partecipazione alle vicende dell’altro, possono nascere da questo sforzo di andare in direzione del prossimo. Un piccolo movimento che consente di verificare l’inesattezza del pregiudizio. È ciò che sperimenta il protagonista di quest’ultimo racconto. Dalla finestra della propria abitazione, osservando nel corso degli anni il vicino, egli sente spesso dei gridi male articolati che tentano di richiamare l’attenzione dell’uomo. L’unica spiegazione che riesce a darsi è che abbia un figlio ritardato, ma entrando nella casa scopre che a emettere quei gridi è un pappagallo oramai anziano che non riesce più a volare né a imparare parole nuove. Sia l’incapacità di volare che quella di imparare fanno riferimento a una condizione esistenziale di senilità e di rassegnazione. La difficoltà di percepire il senso profondo della realtà, descritta in pressoché tutti i racconti del libro, si concretizza in una sostanziale afasia. Chiamare le cose per nome significa prenderne profondamente possesso, e dunque l’incapacità di imparare nuove parole attesta quella perdita di contatto con l’aspetto noumenico dell’esistenza di cui si è ampiamente discusso. D’un tratto, mentre il protagonista sta per tornare a casa propria, il suo vicino ha un’esitazione, lo trattiene: «Avanti, mi aiuti a insegnargli qualcosa, dica qualcosa, una parola». Con questa immagine di speranza termina il libro. Recandosi a casa del proprio vicino, il personaggio ha scardinato la parzialità di prospettiva che preclude la comprensione, la solidarietà, impedisce la nominazione nuova delle cose. È sufficiente questo breve spostamento dal proprio punto di osservazione a quello sulla sponda opposta. La storia si rimette in movimento, si muove un passo in direzione del bene.

su La Rivista dei Libri, Dicembre 2009

LUCA ALVINO si interessa di letteratura italiana, ebraica e americana. Si è occupato a lungo di Gabriele d’Annunzio ed è autore de: Il poema della leggerezza. Gnoseologia della metamorfosi nell’«Alcyone» di Gabriele d’Annunzio (Bulzoni, 1998)